Il coefficiente di Gini e un'idea liberale di giustizia
Il proposito di coniugare gli ideali di libertà e di giustizia, riproposto con alterne fortune da oltre due secoli, è sembrato erroneo, vano o improbabile tanto a molti liberali quanto a molti socialisti. Se per quelli che lo hanno adottato le sconfitte politiche sono state più frequenti delle vittorie, tuttavia nel lungo periodo non si può non registrare una crescita in parallelo sia del socialismo riformista e liberale rispetto a quello massimalista e terzo-internazionalista, sia di un liberalismo sempre più spesso temperato da correttivi volti a favorire una ridistribuzione complessiva della ricchezza.
Nonostante le dispute che coinvolsero socialisti liberali o liberalsocialisti come Aldo e Nello Rosselli, Piero Calamandrei, Gaetano Salvemini, Aldo Capitini, Guido Calogero, Ernesto Rossi, Norberto Bobbio e molti altri, il loro tentativo di dare vita a un tipo di società che cercasse di coniugare in maniera efficace i valori della libertà e della giustizia è stato recepito dai padri costituenti, che ne hanno fatto due riferimenti cruciali della carta costituzionale. Alle riserve di Benedetto Croce circa la commistione di due principi a suo avviso eterogenei come quelli di libertà e di giustizia, rispose poi nel merito Guido Calogero, secondo il quale l’ideale di giustizia – che non significa ugualitarismo economico o sociale, ma l’impegno delle comunità a garantire ad ogni cittadino una dignità sociale e una disponibilità economica idonee a esercitare quelle libertà fondamentali altrimenti destinate a restare astrazioni sulla carta dei diritti – è fondamentale per la realizzazione di una vera uguaglianza nel godimento dei diritti fondamentali previsti dallo Stato liberale: “la civiltà – scriveva infatti Calogero – tanto meglio procede quanto più la coscienza e gli istituti del liberalismo lavorano ad inventare e a instaurare sempre più giusti assetti sociali, e la coscienza e gli istituti del socialismo a rendere sempre più possibile e intensa e diffusa tale opera di libertà”.
Oggi le differenze tra destra e sinistra non consistono più, come un secolo fa, nel proporre due strutture diverse ed opposte della società (in base alla presenza o assenza della proprietà privata dei mezzi di produzione), ma sono più che altro riconducibili a dosaggi diversi dell’intervento dello Stato nell’economia. Dopo John Maynard Keynes non è affatto detto che anche un governo a guida liberale non ritenga opportune misure di welfare più o meno permanenti: una certa giustizia distributiva, infatti, non ha solo l’effetto di realizzare un ideale di tipo etico-politico, ma anche quello di rendere la società meno conflittuale e dunque più efficiente e produttiva, nonché quello, non secondario, di favorire la crescita della domanda interna, con tutto ciò che può seguirne in termini di ricaduta sull’offerta e sui livelli occupazionali.
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Un maestro e un amico. Ernesto Rossi e il suo ritratto di Gaetano Salvemini
Era da pochi mesi finita la prima mondiale quando Ernesto Rossi conobbe Gaetano Salvemini. Fu una domenica a Firenze, in una saletta nei pressi del cimitero degli inglesi in cui lui ed altri si erano ritrovati per discutere di sistemi elettorali. C’erano una cinquantina di persone, per lo più collaboratori o lettori dell’Unità, la rivista che Salvemini diresse dal 1911 al 1920.
In quella saletta un tizio stava parlando in mezzo a una gran confusione e continuò a parlare per più di un’ora. Alla fine del suo discorso nessuno ci aveva capito nulla e quando Salvemini prese la parola iniziò il suo intervento così: “l’amico che abbiamo ora ascoltato, ha detto che…” e a poco a poco – racconta Rossi - “fu come se, in un treno che è stato trascinato a lungo sotto la pioggia da una sbuffante macchina a vapore, qualcuno strusciasse col fazzoletto pulito sul vetro del finestrino sporco di fuliggine. Parlava ed il vetro diveniva sempre più limpido, e sempre più chiaro si vedeva il paesaggio fino al lontano orizzonte. Dopo avere riassunto non quello che aveva detto, ma quello che avrebbe dovuto dire il precedente oratore, Salvemini prese a sviluppare il filo delle sue deduzioni. Con una logica così semplice e così rigorosa che non sarebbe stato possibile non capire. Alla fine della sua esposizione il sistema della rappresentanza proporzionale, che prima ci sembrava un terribile rompicapo, era divenuto la cosa più semplice del mondo”. Allora, rivolto chi gli sedeva accanto, Rossi commentò: “per un intellettuale, chiarezza equivale ad onestà”.
I primi passi dell’amicizia tra Rossi e Salvemini furono piuttosto difficili. Quando si conobbero Rossi aveva ventidue anni e nessuna esperienza politica: “ero andato al fronte – scrive - come volontario di guerra, non per Trento e Trieste, ma per impedire che il militarismo tedesco soffocasse, per tutta un’epoca, la libertà in Europa. Durante l’ora della cosiddetta ‘morale’, avevo letto e spiegato ai miei soldati I doveri dell’uomo di Mazzini. Tornato a Firenze, mutilato, non potevo ammettere che tutte le sofferenze patite e il sacrificio di tante giovani vite (avevo perduto al fronte anche mio fratello maggiore e i miei due migliori amici) venissero vilipesi dai socialisti, che erano stati in gran parte imboscati nelle fabbriche d’armi, e che, fino a Caporetto, avevano adottato la vile politica del <<non collaborare, né sabotare>>”.
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Una casa nuova e antica, per la poesia
Difficile dire perché dei versi siano poesia. Difficile oggi forse più che mai prima, per il proliferare di gusti e scritture, di gesti artistici d’ogni tipo supportati da letture critiche lusinghiere verso un diffuso concettualismo o uno sperimentalismo enfatico. Difficile, se non impossibile, spiegare oggi perché una raccolta poetica possa stagliarsi sullo sfondo delle opinioni facili di questi tempi, in questo scorcio malato d’inizio millennio. L’unica possibilità residua è forse aggiungerne una alla lunga lista, una non meno approssimativa e incerta di ogni altra, che in null’altro ricerchi un fondamento se non nel lasciar risuonare i versi, nell’affabularli per un minuto o due sperando che tocchino l’anima di qualche impenitente lettore di poesia. Nonostante tutto, c’è infatti chi ha ancora il gusto di cercare, in questa forma d’arte letteraria, tracce di vita in grado di far senso, di produrre la luce e l’orizzonte più propri in cui poter riconoscere il proprio sguardo.
L’autore della silloge di poesia di cui ci apprestiamo a parlare è Bonifazio Mattei: un insegnante di lettere in un liceo classico romano, dantista per vocazione ed elezione. In qualità di dantista era solito tenere nelle sere d’estate, almeno fino a qualche tempo fa, delle letture/conferenze a Leonessa, nel reatino, aperte a tutta la cittadinanza interessata.
Nelle sue poesie si sentono gli echi degli autori a lui più cari: da Giacomo Leopardi a Giovanni Pascoli, da Camillo Sbarbaro a Giorgio Caproni, fino a Jorge Luis Borges o a Eugenio Montale, a Sandro Penna e a Umberto Saba. Dopo alcune poesie apparse in Erba d’Arno e in Poeti e poesia, con L’ultima casa, fa il suo esordio con una silloge nel panorama poetico italiano.
Verso un nuovo medievo
Le riflessioni Nikolaj Berdjaev sul destino della democrazia in Russia
“L'individualismo, l'atomizzazione della società, la sfrenata concupiscenza mondana, la sovrappopolazione illimitata e la smodata pletora dei bisogni”: sono questi, secondo Nikolaj Berdiaev, gli ingredienti principali del materialismo economico, per il quale la vita spirituale dell'uomo è un’illusione priva di valore. Il socialismo, d’altro canto, non fa che sviluppare e portare alle estreme conseguenze questa prospettiva materialistica e non rappresenta in fondo che “il trionfo vivo dei suoi principi latenti e la loro piena diffusione”. Esso mutua “dalla società borghese capitalista il suo materialismo, il suo ateismo, i suoi lumi superficiali, la sua ostilità nei confronti dello spirito e di ogni vita spirituale, la sua frenesia di vivere e di godere, la sua lotta per gli interessi egoisti, la sua incapacità di concentrazione interiore”.
Nicolaj Berdiaev è stato uno dei più brillanti filosofi e critici letterari russo-ucraini del Novecento. In Nuovo Medioevo – il saggio che, uscito nel 1923, gli conferì notorietà internazionale - spiega perché dopo il trionfo di due varianti solo apparentemente opposte dello stesso modello culturale materialistico non possa che profilarsi l’esigenza di un nuovo medioevo, per il quale tornerà ad essere sostanziale ciò che nei tempi moderni viene invece considerato superfluo. In questa nuova epoca della civiltà si potrà infatti tornare “a un tipo religioso più elevato” e a rivalutare la sfera spirituale come l’unica possibilità per opporsi all’attuale decadenza.
A uscire da quest’epoca di decadenza il bolscevismo ci ha provato, ma non c’è riuscito, perché partiva dagli stessi presupposti materialisti che intendeva superare. Essendo una “allucinazione dello spirito” poté conquistare il potere perché corrispondeva in quel momento allo stato morale malato del popolo russo, esprimeva “esteriormente la sua crisi morale interna, l'abbandono della fede, la crisi della religione”. Per cercare di far fronte a simili malattie morali la democrazia liberale non poteva essere di alcun aiuto, e nemmeno il socialismo liberale e umanitario. Solo i bolscevichi potevano dar vita a un tipo di regime che fosse espressione del “singolare sentimento di distacco dalle cose terrene” che il popolo russo ha sempre manifestato e che è sconosciuto ai popoli dell'Occidente. Il popolo russo, infatti, “non si è mai sentito legato alle cose della terra, alla proprietà, alla famiglia”, e più in generale non si è mai sentito legato alla nozione stessa di diritto e di cittadinanza. La stessa religione ortodossa ha sempre valorizzato “l'idea del dovere, non l'idea del diritto”. I diritti della borghesia non hanno mai avuto presso il popolo russo una grande rilevanza.