La sconfitta pilotata dell'Ucraina e la linea rossa di Putin
In questi giorni molte città ucraine sono di nuovo sotto il fuoco dei missili e delle bombe di Mosca. Questa strage di civili, che non risparmia nemmeno i soccorritori, continua da oltre due anni, ma a differenza di quanto succedeva nei primi mesi successivi all’invasione russa oggi l’Ucraina disporrebbe delle armi idonee per colpire le postazioni da cui partono quei missili. Se non lo fa, è perché i suoi alleati occidentali hanno posto un limite all’utilizzo di quelle armi, vietandone l’uso oltre una certa distanza dal confine. Il Cremlino ha cosi spostato tutte le sue basi missilistiche dove non possono essere colpite, pur potendo invece continuare a colpire i civili ucraini e le infrastrutture energetiche vitali nel territorio invaso.
Questo veto degli alleati mirava probabilmente fin dall’inizio a non superare la linea rossa tracciata da Putin, per il quale non è accettabile qualsiasi esito del conflitto che non possa presentare al popolo russo come una vittoria. Il dittatore del Cremlino cerca infatti d’indurre l’Ucraina a una resa sostanziale pur sapendo che questo comporterà per la Russia dei costi enormi a livello economico e geopolitico. L’occidente, d’altro canto, ha accettato di rispettare questa linea rossa per non testare l’autenticità del ricatto nucleare messo in campo da Putin, confidando a sua volta di poter trarre comunque dalla situazione dei vantaggi consistenti, che in effetti sono stati puntualmente raggiunti: una minore dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia, un logoramento economico e militare di quest’ultima, la possibilità di saggiarne l’efficienza nell’uso di armi convenzionali e, soprattutto, l’allargamento della NATO con l’ingresso della Svezia e della Finlandia.
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Dove vanno i liberaldemocratici?
In un articolo-saggio pubblicato sull’Espresso il 5 febbraio 1978 e intitolato Quel che resta e quel che è sparito, Vittorio Saltini sosteneva che, sulla spinta del 68, solo il gruppo radicale fosse stato davvero efficace, almeno in paragone alla sua forza numerica, nel rendere il nostro paese più civile e democratico: “senza troppe illusioni marxiste-operaie”, i radicali avevano infatti capito che la possibilità aperta dal '68 “era il mutamento del costume e quindi delle leggi che limitavano i diritti civili e con le loro iniziative, come ha mostrato il voto sul divorzio, hanno favorito la crescita di tutta la sinistra. L'efficacia dei radicali, malgrado i limiti della loro dirigenza, dà un'idea di quello che si sarebbe potuto fare dal '68 ad oggi, se migliaia di intellettuali e di giovani non si fossero dispersi nei sogni conformisticamente marxisti del Manifesto, di Avanguardia Operaia, Lotta Continua”.
Oggi, purtroppo, dopo la morte di Marco Pannella, anche le coraggiose battaglie radicali sembrano essersi dissolte in corollari effimeri del vasto e spesso affabulante tentativo di dare vita a un campo largo di una sinistra ormai a guida populista e islam-comunista. L’impressione è infatti che questa sinistra sia più intenta ad adornarsi di una contraddittoria miscela di ideali piuttosto che non ad affrontare in modo realistico le sfide che la nostra epoca ci pone di fronte. Una simile contraddittoria miscela può far sorridere chiunque nutra per tali ideali un sincero rispetto, mentre suscita ondate di opportunistico consenso in tutti coloro che vi intravedono un’occasione di riscatto elettorale. Certo, questi non sembrano dispiaciuti per l’evoluzione politicante di alcuni autorevoli esponenti di un partito che è davvero riuscito, nonostante le sue modeste dimensioni, a rendere negli anni 60 e 70 l’Italia un paese assai meno incivile e retrivo.
L'islam-comunismo e la stanchezza della democrazia
Secondo un sondaggio pubblicato dalla Bild Zeitung e rilanciato di recente da Italia Oggi, per i giovani islamici che frequentano il ginnasio o un istituto professionale nel Land della bassa Sassonia il Corano è più importante della legge tedesca. Il 45% dei ragazzi intervistati è convinto che uno Stato Islamico sia la miglior forma di governo possibile e il 35,3 si dichiara comprensivo verso chi ha commesso atti di violenza contro coloro che hanno offeso Allah o il profeta Maometto. Per il 31,3% è giustificata in generale anche la reazione violenta contro il mondo occidentale che minaccia i musulmani, mentre il 67,8% ritiene che le regole dettate dal Corano siano più importanti delle leggi tedesche. Inoltre, per il 51,5% solo l'Islam è in grado di risolvere i problemi del nostro tempo.
Trattandosi di un sondaggio condotto dal Kriminologische Forschung Institut, (Istituto di ricerca criminologica) non c’è motivo di dubitare della sua attendibilità, anche perché in fondo rimarca un fenomeno che non si discosta molto da quanto un comune cittadino europeo può comunque riscontrare in base alla sua esperienza e alle sue conoscenze. Considerando che si tratta di risposte formulate a freddo, senza cioè particolari pressioni ambientali, si può facilmente immaginare come potrebbero essere state in un periodo di stress socio-culturale maggiore, come per esempio se i giovani intervistati si fossero trovati costretti ad operare una scelta tra le leggi di uno Stato laico e democratico e quelle dettate dal Corano in un frangente storico in cui la propria comunità religiosa di riferimento fosse stata impegnata in un conflitto con quello Stato.
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La poetica di Li Po, tra Confucio e Lao-Tzu
“Se la nostra vita fosse in ogni momento piena di senso, se il mondo fosse un giardino dove gli uomini, godendosi il sole, conversassero tutti amichevolmente, non ci siederemmo in un angolo a scrivere”. In fondo, questa semplice considerazione del narratore de Il primo libro di Li Po - il poeta vissuto 1200 anni fa (701-762 dopo Cristo) che costituisce insieme a Po Chui, Tu Fu e Wang Wei uno dei messimi classici della poesia cinese - potrebbe bastare a dar un’idea del senso della letteratura.
Li Po ammirava i paesaggi ed era solito passeggiare tra fertili pianure e montagne boschive: “su ponti oscillanti di legno, passava fra cime di pietra, vedeva strapiombi da cui balzavano le acque urlanti, mentre i banchi di nebbia s’arrampicavano sui fianchi frastagliati. O da alti valichi scorgeva, nelle pianure, laghi verde-azzurri e risaie allagate con le pozze d’acqua luccicanti al sole. Senza scendere dal mulo, a volte prendeva appunti o buttava giù una poesia. O fermata la bestia, schizzava a inchiostro l’impressione che uno scorcio di paesaggio gli faceva.”
La cultura liberale e Radio 3
La storia del pensiero liberale è ricca di esempi interessanti di come si possa felicemente coniugare l’azione politica con una civile testimonianza culturale. Da Alexis De Tocqueville a Benjamin Constant, da John Stuart Mill fino a Benedetto Croce e Karl Popper tutti i grandi intellettuali e pensatori liberali tra il XIX e il XX secolo hanno dimostrato di considerare politicamente decisivo il lavoro delle idee e della cultura per difendere e promuovere la propria concezione della società umana. In Italia, tuttavia, già a metà del secolo scorso Mario Pannunzio si chiedeva come mai tante diverse correnti d’ispirazione liberale e democratica - fedeli a una tradizione di grande nobiltà intellettuale e che poteva annoverare tra i propri maestri Camillo Benso di Cavour, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Guido De Ruggiero, Giovanni Amendola e, tra i liberalsocialisti, personalità come Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi e Guido Calogero - abbiano trovato così poca udienza nel nostro paese.
Ancora nel secondo dopoguerra, secondo Pannunzio, questo fenomeno poteva dipendere dalla pressione di enormi masse che votavano per i cattolici o per i comunisti, e talora perfino per i monarchici o i fascisti. Su un elettorato di una trentina di milioni di cittadini, ventidue milioni di voti andavano infatti a partiti che erano espressione di subculture tanto ben radicate nella storia italiana quanto estranee ai paesi occidentali più progrediti. Ciò nonostante, sebbene questi fossero già allora i rapporti di forza tra i partiti d’spirazione liberale e i partiti di massa, fino alla fine degli anni 80 i liberali, nelle loro varie declinazioni, non avevano mai smesso di attribuire la giusta importanza al lavoro culturale nelle università e nell’editoria, e più in generale alla difesa di quei valori liberaldemocratici che avevano ispirato gran parte della nostra carta costituzionale.
La quotidiana mancanza dell'onore
La quotidiana mancanza è veramente un libro malinconico e obliquo, forse per certi versi anche tragico, in cui si affrontano, con grande coraggio intellettuale, snodi culturali di portata epocale con leggerezza confidenziale e a tratti diaristica. In questo breve ma denso saggio Fabio Bazzani, che ha insegnato per anni Etica e Storia della filosofia morale presso l’Università di Firenze, si misura infatti con la prevalente liquidità categoriale dell’epoca in corso e con l’omologazione delle élite intellettuali che la caratterizza: se infatti “l’imbecillità dei popoli è dato storico costante, l’imbecillità delle élite è fenomeno relativamente recente, peculiarmente tardo-moderno”.
Il semplificarsi delle competenze richieste oggi per far parte di tali élite non esige più “un cursus honorum fatto di studi, letture, esperienza affinata nelle professioni”. Chiunque può fare il ministro o il professore universitario: basta che sia ben ammaestrato “nella proceduralità con la quale si può soddisfare ai bisogni di quella dinamica. Cambia la soggettività; il soggetto è la procedura in sé”. Nella società di massa tardo-moderna, “nella nuova era della rivoluzione industriale elettronica e telematica”, si sono infatti prima sperimentate e poi consolidate nuove forme di asservimento grazie alle quali i servi sanno sempre meno di essere tali: “le catene non appaiono più e non c’è alcun potere personale che le imponga e, d’altra parte, lo stesso potere personale sussiste solo come residualità storica ridotta a simulacro, a finzione, a vuoto involucro ideologico”.