Theodor W. Adorno, Ernest Ansermet e la musica nuova

 

   Theodor W. Adorno considera la convinzione che Beethoven sia più comprensibile di Schönberg un “inganno” e pensa che quanti sono scandalizzati dalle dissonanze siano in realtà spaventati da se stessi: è unicamente per questo che le dissonanze riescono loro insopportabili. In Filosofia della musica moderna (Torino, 1969 e 2002, Einaudi editore) il filosofo francofortese, al quale si deve forse più che a ogni altro la giustificazione teorica della musica dodecafonica, equipara coloro che s’indignano dinanzi alla nuova musica a chi tratta il classicismo viennese come un prodotto di consumo qualsiasi, al pari di “ninnoli casalinghi. In realtà un ascolto adeguato di quegli stessi pezzi di cui l’ometto della metropolitana fischietta i temi, esige uno sforzo ancora maggiore che non la musica più avanzata: e cioè quello di togliere di mezzo la vernice di falsa esibizione e di formula reazionaria ristagnate col tempo”.

    L’equiparazione da parte di Adorno di quanto di musicale viene ancora oggi, dopo uno o più secoli, ascoltato da molti con grande trasporto a dei “ninnoli casalinghi” ha tuttavia il sapore di un elitarismo mascherato da sortilegio dialettico e non pare esente da una certa arroganza teorica. Quest’impressione può trovare una qualche conferma nel fatto che Adorno fa propria la tesi di Clement Greeberg secondo cui l’arte può essere distinta “in falsità e avanguardia”, dove ciò che s’intende per “avanguardia” viene a coincidere con l’unica possibile via autentica, mentre tutte le altre opzioni vengono relegate a manifestazioni culturali false e reazionarie. Si tratta ovviamente di una tesi estrema e forse in parte provocatoria, ma utile per evidenziare l’essenziale autoreferenzialità della posizione di Adorno, che riduce qualsiasi critica alla nuova musica ad una sostanziale incapacità di comprenderla, quando non a una vera e propria malafede intellettuale.

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Piero Martinetti e il dialogo eterno tra ragione e fede

   Joseph Ratzinger è stato recentemente definito da Massimo Cacciari, in un’intervista a l’Avvenire del 6 gennaio 2023, “un intellettuale europeo al mille per cento”. Secondo Cacciari, Ratzinger considera “legittimo e giusto il legame che si opera fin dai primi secoli del cristianesimo tra la filosofia greca e il Vangelo. È un legame che non si sovrappone al Vangelo ma che in qualche modo nasce dal Vangelo stesso, che si impone a partire da quel messaggio. Questo è il discorso intorno a cui dibatte la teologia e dell’Otto e Novecento a partire dall’idealismo tedesco, cioè tutta quella tradizione a cui Ratzinger appartiene anima e corpo”. Cacciari sostiene dunque che per Ratzinger “è proprio della fede rapportarsi con il logos, immanente all’atto di fede e che deve tendere alla verità esattamente come l’atto di fede”

   Se per Ratzinger è essenziale per la fede rapportarsi al Logos, non è meno essenziale per il Logos, per la Ragione, rapportarsi alla fede. Nella famosa conferenza tenuta a Ratisbona il 12 settembre 2006, Papa Benedetto XVI sostenne che una ragione sorda al divino “è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture”. Il saper ascoltare “le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell’umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza”, mentre il rifiutare pregiudizialmente di farlo implicherebbe una riduzione inaccettabile della nostra stessa capacità ascoltare, rispondere e ragionare. Concetti simili saranno poi ripresi nell’enciclica Spe Salvi, nella quale il Papa da poco scomparso ribadì la limitatezza della sola ragione senza fede e una ferma condanna dell’illuminismo: “la ragione ha bisogno della fede per arrivare ad essere totalmente se stessa: ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione”.

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La dittatura del presente e il bello digitale

 

   In due conferenze tenute nel 1918 all’Università di Monaco (Wissenschaft als Beruf – Politik als Beruf, 1918) Max Weber riassume il senso delle sue riflessioni sul lavoro intellettuale e la politica come Beruf, ovvero, in due parole, come vocazione professionale. Nel primo di tali saggi propone anche una distinzione cruciale: se la scienza progredisce costantemente verso nuove scoperte e successi, e se dunque una teoria scientifica successiva può essere considerata ragionevolmente “migliore”, nel senso di più profonda ed evoluta, di una di un secolo prima, la stessa cosa non può dirsi dei prodotti dell’arte.

   Ciò che secondo Weber differenzia profondamente la scienza dall’arte può essere riassunto, citandolo, come segue: “L’attività scientifica è inserita nel corso del progresso. E viceversa nessun progresso si attua nel campo dell’arte. Di un’opera realmente «compiuta» in senso artistico nessuno potrà mai dire che sia «superata» da un’altra pur essa «compiuta». Viceversa, essere superati sul piano scientifico è - giova ripeterlo - non solo il nostro destino, ma il nostro scopo. In linea di principio, questo progresso tende all’infinito”.

   Secondo la tesi di Weber, questa giustificata fiducia nel progresso scientifico è abbinata a un’altra giustificata fiducia in quello tecnologico, ma ciò che vale per la scienza e la tecnica non vale necessariamente per l’arte, così come non vale per tutte quelle visioni e intuizioni del mondo e della vita da cui l’arte trae la sua linfa ispiratrice: queste costituiscono infatti altrettanti conferimenti di senso al mondo e alla vita che non scaturiscono necessariamente dal livello di progresso scientifico o tecnologico di cui siamo storicamente partecipi.

   L’idea che si è invece progressivamente sempre più diffusa è che esista un progresso ineludibile in ogni attività umana. Così come un cellulare o un televisore dell’ultima generazione può essere ritenuto aprioristicamente più evoluto, efficiente e complessivamente migliore di qualche modello precedente, per analoghe ragioni si tende a pensare, specialmente tra i più giovani, che un’opera d’arte, un romanzo, un brano musicale di oggi sia preferibile a opere analoghe di venti o cento fa. Con una tipica argomentazione viziosa si tende cioè a considerare quanto avviene dopo migliore di ciò che è avvenuto prima per il semplice fatto che il “dopo” include sempre qualche forma di progresso. Non a caso, il dopo ultimativo del presente risulta più fruibile e più interessante: esso è in grado di riflettere meglio il proprio tempo, il tempo contemporaneo.

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Ricordo di Pietro Ceretti: un artista di strada, un poeta e un filosofo erroneamente poco celebre

 

   Nel discorso commemorativo del primo centenario della nascita di Pietro Ceretti (Intra, 1823-1884) un altro piemontese, Piero Martinetti (Pont Canavese, 1872, Cuorgnè 1943) ricorda che un elemento importante della sua formazione umana e culturale furono i viaggi, “che egli intraprese dall’età di ventun anni per tutta l’Europa, errando, come i saggi antichi, senza meta, col solo fine di vedere la varietà degli uomini e dei loro costumi. Egli viaggiava a piedi, con la massima semplicità”. Viaggiava fingendosi operaio o bracciante e accompagnandosi talvolta a zingari o vagabondi. A Parigi una volta entrò in un’aula della Sorbona per ascoltare una lezione e dalla reazione basita dei presenti si capisce che il suo aspetto non doveva essere dei più rassicuranti.

  Riferendosi a questo periodo giovanile della sua vita lo stesso Ceretti lo descrive così in una delle sue opere (Viaggi utopistici, 1878): “in questa somma libertà della mia vita errabonda ho praticato molte cose, che nel mio paese nativo sarebbero titolate inqualificabili stramberie: per esempio, ho potuto vagolare con un organetto per divertire i popolani, i ragazzi, e le ragazze che mi ballavano intorno, mentre un mio intrinseco vagolava per la debita questua. Ho potuto associarmi con un gessino e un girovago portatore di organetto, i quali erano vagabondi mio pari. Mi ricordo che in simili circostanze si cenava con una zuppa nel medesimo tegame, che serviva per i tre, e ci coricavamo qualche volta in una sola camera”.

   Ma chi era questo curioso personaggio, artista di strada e intellettuale, poeta e scrittore, suonatore di organetto nonché autore di ponderosi trattati filosofici di matrice hegeliana? Sicuramente, a distanza di circa un secolo e mezzo dall’epoca in cui ebbe a vivere, la sua celebrità non si è mai discostata molto da quella, piuttosto inconsistente, su cui aveva esercitato la sua autoironia. Il gusto della solitudine e un sereno misantropismo gli consentirono infatti di tenersi alla larga dalla tentazione di voler conquistare successo e fama, e ciò anche grazie a una notevole dose di rigore intellettuale e all’esercizio dell’astinenza pubblicistica.

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Dieci differenze tra i "settari" e i "dialogici" nella vita e su Twitter

 

   Il presente e succinto promemoria parte dall'ipotesi che i "settari" siano una categoria psicologicamente, sociologicamente e culturalmente ben definibile, esattamente come i loro eterni contraltari, ovvero i "dialogici". Ma come si fa a distinguere, nella vita e su Twitter, gli uni dagli altri?

 

   Prima differenza: i settari tendono ad asserire, i dialogici ad argomentare.

   Seconda differenza: i settari tendono ad essere sempre d'accordo con il loro capo carismatico, o leader, mentre i dialogici talora sono critici anche verso le persone che apprezzano e stimano di più.

   Terza differenza: i settari tendono a rispettare le gerarchie all'interno della loro setta; i dialogici, non identificandosi mai con alcuna setta, non hanno alcuna particolare soggezione verso qualsivoglia gerarchia.

   Quarta differenza: i settari tendono a muoversi e agire in gruppo, i dialogici tendono a farlo da soli.

   Quinta differenza: i settari sono inclini all'offesa, mentre i dialogici solitamente ne rifuggono.

   Sesta differenza: su Twitter i settari tendono a mettere molti like, specialmente dove ce ne sono già tanti; i dialogici ne mettono in genere di meno, ma di più dove ce ne sono di meno.

   Settima differenza: i settari tendono a non cambiare opinione, anche quando non ne hanno, come spesso accade, una propria; i dialogici tendono a cambiarla con circospezione.

   Ottava differenza: i settari, identificandosi con la propria setta, hanno qualche difficoltà in più dei dialogici a provare vergogna, perché si appagano di surrettizie sicurezze gregarie.

   Nona differenza: i settari, al contrario dei dialogici, sono per lo più incapaci di trarre un vero piacere dalla conversazione, mentre trovano soddisfazione nelle discussioni, specialmente se accese.

   Decima differenza: sia nella vita sia su Twitter i settari tendono a ripetere all'infinito i luoghi comuni cari alla propria setta e talora, sbagliando coordinate, inavvertitamente anche ad altre concorrenti; ripetizioni da cui invece rifuggono i dialogici.

 

Hegel precursore di Einstein

     Il primo postulato su cui si basa la teoria della relatività ristretta stabilisce che le leggi della natura sono uguali in qualsiasi sistema di riferimento inerziale. Il secondo postulato su cui si fonda tale teoria è invece quello che asserisce la non superabilità, o l'assolutezza, della velocità della luce. Questo secondo postulato aveva avuto già qualche illustre anticipazione filosofica circa un secolo prima di Albert Einstein. Ne L'enciclopedia delle scienze filosofiche, infatti, Hegel aveva definito quella della luce come una velocità assoluta, in quanto velocità di un corpo "assolutamente leggiero", cioè privo di massa inerziale.

    Ma procediamo con ordine. Per Einstein la velocità della luce è finita, ma poiché è la velocità massima possibile, si comporta come una velocità infinita. Questo implica che non è più valida la legge della trasformazione classica, galileiana, e che diventa valida la legge della trasformazione di Lorentz. Infatti, come sostengono Einstein e Infeld (L’evoluzione della fisica, Torino, 1965, p. 200) “il numero esprimente la velocità della luce figura esplicitamente nella trasformazione di Lorentz, e vi assume la veste di caso limite, come la velocità infinita nella meccanica classica”.

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La "volontà generale" e l'obbligo di essere liberi

 

 Jean Jacques Rousseau pensa che con il contratto sociale l’uomo perda "la sua libertà naturale e un diritto illimitato a tutto ciò che lo tenta e che egli può raggiungere", ma che in cambio guadagni "la libertà civile e la proprietà di tutto ciò che possiede". Mentre la libertà naturale "ha come limite solo le forze dell’individuo", la libertà civile "è limitata dalla volontà generale", ed è strettamente congiunta alla "libertà morale, che sola rende l’uomo veramente padrone di se stesso", perché l'assecondare gli impulsi che determinano i nostri desideri equivale a una forma di schiavitù, mentre l’obbedienza alla legge che ci si è prescritta ci consente di accedere all'unica forma di libertà di cui possiamo usufruire all'interno di una società.

 

   Ogni cittadino, avendo ottenuto la sua parte, deve infatti per Rousseau rinunciare a vantare altri diritti, il che consente alla volontà generale di "indirizzare le forze dello Stato secondo il fine implicito nella sua istituzione, che è il bene comune". In altre parole, il legame sociale è formato proprio da ciò che c’è di comune tra i diversi interessi dei cittadini e la sovranità su di loro può essere esercitata solo in base alla volontà generale, dato che questa è espressione dello stesso bene comune che ogni sovranità dovrebbe incarnare e rappresentare.

 

   Poiché con il contratto sociale "ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale", ciascun membro di una società è parte di un tutto inscindibile e sovrano. È noto tuttavia che per Rousseau la volontà generale non coincide con la volontà di tutti: mentre la prima "mira unicamente all’interesse comune", la seconda guarda "all’interesse privato e non è che una somma di volontà particolari". Proprio questa differenza introduce la possibilità di un uso illegittimo della stessa volontà generale, ovvero di un uso che è in grado di mettere in pericolo il rispetto di quelle libertà civili che il contratto sociale dovrebbe invece garantire.

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Il canto del mondo e il pensiero della vita

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Piero Martinetti, Simone Weil e l'attualità del marcionismo

 

     Piero Martinetti e Simone Weil sono morti entrambi nel 1943 e si può presumere che ignorassero reciprocamente le loro opere. Ebbero entrambi atteggiamenti pubblici intransigenti verso il fascismo e il nazismo: la Weil tornò appositamente in Europa dagli Stati Uniti per combattere Hitler e Martinetti fu l’unico filosofo tra la dozzina di professori che su 1200 accademici italiani si rifiutò di prestare giuramento al regime. Inoltre, entrambi mostrarono qualche simpatia per il marcionismo.  

    Marcione di Sinope fu un eretico della metà del secondo secolo che considerava il Vecchio Testamento come il prodotto di un Dio che aveva tutti i pregi e i difetti dell’umanità e la cui legge risultava da una miscellanea di giustizia e di arbitrio, di amore e odio. Il Messia che aveva promesso non era mai giunto sulla terra, mentre un altro Dio, quello che aveva ispirato i primi tre vangeli, aveva mandato suo Figlio, Gesù Cristo, nel mondo per liberare gli uomini dagli effetti della materia e della legge di quel primo Dio.

    Secondo la lettura che viene fornita da Ernst Bloch, Marcione fu colui che “cercò di strappare radicalmente Gesù dal quadro biblico-giudaico durato fino ad allora. E ciò avvenne, notiamolo bene, senza una qualsiasi tensione o inimicizia verso i Giudei (Marcione venerava il giudeo Paolo come il suo maestro); ma nulla Gesù aveva in comune con la Bibbia di Jahvé fintanto che essa rimane tale. Marcione non solo poneva il messaggio di Cristo in contrapposizione con l’Antico Testamento, ma ne faceva qualcosa di assolutamente diverso; la rottura con l’Antico segue dunque al salto dell’Evangelo nel nuovo che appare senza confronti. In tal modo è in primo luogo a partire da Marcione che si è sviluppato ed è stato posto in risalto in genere il concetto di un Nuovo Testamento” (E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo, trad. it. Milano, 1971; ed. cit. 1983, p. 227).

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Thomas Mann e i moderati nell'era della tecnica

   Tre anni prima del suo rientro definitivo in Germania dagli Stati Uniti, nel 1950, Thomas Mann tenne a Chicago una conferenza con un titolo semplice ed emblematico: Il mio tempo. La traduzione italiana della conferenza, di Ervino Pocar, è contenuta in un volume della vecchia Medusa mondadoriana nel contesto di una silloge per la cui composizione lo stesso Mann ebbe occasione di compiacersi con l’editore italiano (T. Mann, Il mio tempo, in Romanzo di un romanzo, trad. it. Mondadori, 1952, pp. 241-265).

   Il tempo in cui il grande scrittore tedesco si trovò a vivere, e di cui parlò in quella conferenza, è ancora quello dell’epoca che Goethe aveva già contrassegnato come l’era delle “facilità”, e che Mann assimila all’ “epoca della tecnica, del progresso e delle masse, quell’epoca che dopo una corsa di 120 anni è giunta in questi giorni angosciati a toccare la vetta vertiginosa e veramente fantastica” (ivi, p. 243).

   La vetta cui Thomas Mann si riferisce è quella caratterizzata dal secondo conflitto mondiale, dall’olocausto e dall’incipiente guerra fredda, ma anche dal rapido diffondersi di quelle “mode” e correnti culturali che lui non seguì mai: “quando il mio pensiero ritorna al passato… – scrive infatti – ecco, io non ho mai seguito la moda, non ho mai portato il macabro martello dell’Arlecchino fin de siécle, mai avuto l’ambizione di essere all’avanguardia letteraria, mai appartenuto a una scuola o alla consorteria che era di volta in volta al comando, né al naturalismo, né al neo-romanticismo, al neo-classicismo, al simbolismo, all’espressionismo, e chi più ne ha più ne metta. Perciò non fui mai sostenuto da nessuna scuola e raramente lodato dai letterati (ivi, p. 251)”.

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La terra di mezzo della filosofia e la visione dall'alto

   

   Si discute spesso sui rapporti tra la scienza, la religione e la filosofia. All’inizio della sua Storia della filosofia occidentale, il libro che contribuì a fargli vincere il Nobel per la letteratura, Bertrand Russell inquadra il problema in un modo tanto sensato da risultare ancor oggi forse la miglior risposta al problema, almeno tra quelle succinte.  La filosofia sarebbe, secondo Russell, una sorta di terra di mezzo tra la religione e la scienza: come la prima affronta problemi concernenti il “senso” della vita e del mondo nel suo complesso; come la seconda non si accontenta però di nutrire una “fede” in questo senso, ma pretende di giustificare razionalmente ciò in cui crede, i propri valori e principi.

   A integrazione della tesi di Russell si potrebbe tuttavia aggiungere che il punto di separazione tra filosofo e uomo di scienza è che l'uomo di scienza non si interroga sul senso non perché neghi necessariamente la sua esistenza, ma perché in quanto scienziato gli è indifferente, il che poi non significa necessariamente che gli sia indifferente in assoluto. L'uomo di scienza si interroga sulle possibili simmetrie, per esempio, tra il sasso che cade e la Luna che ruota intorno alla Terra: la questione del senso parrebbe lasciata ai filosofi come una questione immaginaria, o a quegli scienziati che non hanno rinunciato, talora per mero diletto, a misurarsi con questioni filosofiche.

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La sventura e la Grazia

 

Leggi le prime pagine: 

 Autore: 

 Come credere in un Dio assente. Saggio su Simone Weil

 Dio assente per un certo tempo.

 Nessun filosofo può sottrarsi al rischio di rimanere preda dei paradossi che arriva a vedere e pensare, al rischio di esplodere in volo un attimo dopo averli sfiorati con le proprie ali. Come Kierkegaard testimonia – e come Jean Luc Marion sottolinea – “un pensatore senza paradosso è come l’amante senza passione, pura mediocrità”.

    Il pensiero di Simone Weil non può che sottrarsi a qualsiasi sospetto in tal senso: la sua idea di Dio propone paradossi incalzanti cui la sua stessa vita rimase a lungo sospesa e il fatto stesso che per lei Dio possa manifestarsi solo tramite la sua assenza risulta fondamentale per poter comprendere il suo rapporto con la fede cristiana.

 L’esperienza della «sventura» ha proprio la prerogativa di rendere “Dio assente per un certo tempo”, un tempo in cui, tuttavia, “bisogna che l’anima continui ad amare a vuoto, o almeno a voler amare, seppure con una parte infinitesimale di se stessa. Allora un giorno Dio le si mostrerà e le svelerà la bellezza del mondo, come accade a Giobbe”.

    La sventura è per la Weil un dispositivo semplice: raduna tutto il male e lo raccoglie in un unico punto per trasfigurare il dolore di cui un essere umano è capace in una dimensione «impersonale», quella stessa in cui in definitiva si manifesta la grazia. Solo attraverso la sventura Dio può rivelarsi come il riflesso infinito della propria assenza; e amare Dio attraverso l’esperienza della sua assenza costituisce l'unica garanzia che abbiamo per poter coltivare una fede non idolatrica, una fede che sia in grado di trasfigurarsi nella testimonianza diretta e piena della sua presenza.

 http://www.asterios.it/catalogo/la-sventura-e-la-grazia

Santità del vero genio

  Qualche osservazione in margine a Simone Weil sull’arte, la bellezza e la genialità.

 

   Alcune parole che una volta erano usate con disinvoltura e una certa frequenza sono divenute ormai desuete. Parole come “bene”, bontà” o “virtù”, sembrano addirittura divenute oggetto di una censura di massa. Specularmente, anche termini che erano da sempre considerati il loro opposto, come “cattivo” o “cattiveria”, sembrano andati incontro ad un analogo destino. Al loro posto, si preferisce in genere usare parole che non hanno un vero e proprio opposto morale, come ad esempio l’inflazionato “stronzo”, un termine dotato di un certo potenziale offensivo che abbraccia una gamma di significati diversi: non significa infatti soltanto o necessariamente “cattivo”, ma può alludere decisamente anche ad una certa stupidità, scemenza, superficialità o falsità. In ogni caso, con il suo uso si evita d’imbarcarsi in una valutazione propriamente morale, che in un’epoca di avanzato nihilismo suona quanto mai inopportuna.

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Un Dio oltre il Dio del teismo

  Il coraggio di esistere e la fede in un Dio non personale secondo Paul Tillich.


   Si può ipotizzare che il vero principio che sta alla base della creazione, o comunque della nascita dell’universo, sia il <<principio dell’informazione>>, ovvero ciò che permette a un’informazione, intesa come regola o legge, di autogenerarsi. Questo tipo d’informazione risiede per esempio nello stesso principio binario che sta alla base dell’omonimo calcolo e che, applicato alla dialettica hegeliana, può spiegare come l’essere si possa generare dal nulla. Un quid d’ipotetica materia iniziale, di densità pressoché infinita sarebbe in questo senso solo il pretesto per la nascita dell’universo proprio in virtù della sua capacità di trasfigurare un nulla - che, per essere se stesso, ha la necessità di percepirsi come un quid d’essere - nell’essere vero e proprio, quello dello spazio-tempo, quello che si dilata e contrae nell’universo come nel suo respiro.

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L'orso bianco, i gatti e la scimmia taoista

 

Pensa a un desiderio che vorresti si realizzasse sapendo che questo sarà possibile solo se riuscirai per un certo tempo, diciamo almeno una dozzina di secondi, a non pensare a una scimmia. Questa sorta di esperimento, o paradosso, è suggerito da un esempio proposto da Allan W. Watts, nel suo libro su La via dello Zen:  “è come se qualcuno – scrive Watts – mi avesse dato una medicina con l’avvertimento che non agirà sul mio organismo se, prendendola, penserò ad una scimmia”.[1]

Qui siamo di fronte ad un impedimento essenziale, innescato da un circolo vizioso non meno loico di quello con cui, nell’inferno dantesco, Minòs distribuiva i suoi giri di coda e che può essere reiterato da qualsiasi immagine o significante. La sua tipologia non è dissimile da un altro famoso paradosso: quell’esortazione “sii spontaneo”, che rende automaticamente impossibile la sua realizzazione, su cui la scuola di Palo Alto ha con lungimiranza imbastito un’intera psicologia.

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Si pensa meglio da soli o in compagnia?

 

Due interviste parallele aiutano a sciogliere l’interrogativo.

   Qualche anno fa, nel numero 92 della rivista Philosophie,venne pubblicato il resoconto di un dibattito intorno alla natura del pensiero filosofico: se esso sia essenzialmente solitario oppure se nasca nel dialogo e nel confronto delle idee, sviluppandosi solo in una dimensione sociale e collettiva. I curatori dell’intervista, Michel Eltchaninof e Martin Legros, si ponevano la seguente domanda: “si pensa meglio da soli o in tanti?” (Pense-t-on mieux seul…ou à plusiers?).

   Il metodo che adottarono per cercare una risposta è in piena sintonia con il tema: a Jean Luc Marion, professore della Sorbona e all’Università di Chigago, e sostenitore, seppur con vari distinguo, della prima tesi, venne  proposta un’intervista “in solitario”, mentre Cédric Villani (direttore dell’Istituto Henry-Poincaré e professore all’Università di Lione), Karol Beffa (compositore e cattedratico al Collège de France), Vincent Descombes (direttore della scuola di studi di scienze sociali) e Barbara Cassin (filosofa e filologa) furono riuniti intorno a un  tavolo per dare vita a un confronto diretto e a un momento di “pensiero collettivo”.

    Nella discussione a quattro voci che ne è nacque Vincent Descombes prospettò distinzioni utili a chiarire meglio il significato dell’espressione à plusiers, precisando che le si potevano attribuire due significati molto differenti: “collettivo” o “socialmente costruito”. Se il pensiero scientifico procede ormai quasi sempre per via “collettiva”, attraverso lo sviluppo di programmi di ricerca che prevedono la partecipazione di più ricercatori, il pensiero filosofico pare invece conservare al suo interno, nelle sue dinamiche e nella sua genesi, anse e fasi non assimilabili a nulla di collettivo. Del resto, se non fosse così, ciò comporterebbe la sua adesione a un programma preordinato e condiviso, adesione che è il contrario della stessa disposizione filosofica a pensare.

   Anche il pensiero filosofico rimane comunque qualcosa di socialmente costruito, perché non può prescindere dall’appoggiarsi a una lingua, dal fare riferimento a diversi sistemi categoriali già operativi e alla loro genesi storica, nonché dal confrontarsi con le prospettive teoriche dei suoi interlocutori.   Citando Thomas Reid, lo stesso Descombes ricordava poi che esistono delle “operazioni solitarie dello spirito” e “delle operazioni sociali dello spirito”, ed è in effetti a questa seconda distinzione che sarebbe opportuno ricondurre la discussione, perché il pensiero filosofico è sempre stato, quando degno di nota, costituito dall’intreccio e dall’alternanza quasi contrappuntistica di questi due momenti.

   Dopo Socrate, che ha mostrato a tutti la struttura essenzialmente dialogica, e quindi sociale, del pensiero in quanto prodotto dall’azione del logos, non è forse più lecito dubitare che una tale dimensione gli sia coessenziale, ma ciò non significa che essa non venga integrata da momenti ideativi che possono scaturire solo dal lavoro solitario della coscienza, dalla sua capacità individuale d’<<intenzionare>> fenomeni e contenuti originali, così da incidere sullo stesso linguaggio e sul sistema categoriale che costituisce di volta in volta lo sfondo attivo di qualsiasi dialogo.

  Proprio questa sua vocazione solitaria comporta dei rischi ineludibili e fecondi. Secondo Jean Luc Marion il pensiero umano, almeno in una dimensione filosofica, non può fare a meno di assumersi una responsabilità in prima persona e di correre il rischio, ad ogni suo passo fenomenologico, “d’esplodere in pieno volo”. Il pensare in tanti, il pensiero collettivo, costituiscono mere illusioni, e “illusioni pericolose. Si può, certo, dibattere e discutere, ma non produrre dei pensieri in tanti. Deleuze aveva ragione: un filosofo non dialoga mai, in un certo senso. Andiamo anzi oltre: in tanti, di fatto, non si pensa più, perché si comincia a dare troppe cose per scontate, senza rimettere niente in causa”.

   Qualcuno potrebbe obiettare che non si pensa da soli perché ci si rivolge sempre a delle persone da cui ci si attende qualche risposta, “ma questo è vero solo in un secondo tempo. Non c’è comunità di pensieri se non ci sono dei pensieri che non sono comuni”, e il rischio in cui incorre il pensiero è quello di svilupparsi su questo secondo livello senza aver percorso e sondato in maniera creativa il primo, quello in cui ci si assume la piena responsabilità di ogni scelta lessicale e concettuale, quella in cui l’intenzione fenomenologica può dare origine a contenuti e significati in grado di mettere in discussione stereotipi più o meno profondamente radicati nella comunità e nelle prospettive teoriche più diffuse.

   Un esempio ispirato al cinema può forse servire a illustrare meglio le differenze cui Marion fa riferimento: per un attore, e in particolare per un attore cinematografico ripreso in primo piano, non è difficile piangere quando la sceneggiatura lo richiede: ci sono vari espedienti per farlo in maniera abbastanza convincente. Come spiegò bene Nikita Mikhalkov durante un corso di regia tenuto a Roma una trentina d’anni fa, la cosa veramente difficile è il far nascere la lacrima in maniera naturale. Il momento in cui la lacrima nasce è quello in cui un attore può rivelare d’essere pienamente il suo personaggio.

   Analogamente, il pensiero, quando acceda a una dimensione filosofica, non può limitarsi a rielaborare o sviluppare pensieri già iniziati da altri, svolgendo in questo modo il ruolo che può avergli assegnato una “sceneggiatura” complessiva e in buona parte preordinata,  assimilandosi così a ciò che Heidegger definiva “pensiero calcolante”, perché il pensiero è essenzialmente individuale ed è condannato a rinascere ad ogni passo per il semplice fatto che è costretto a farlo dalle stesse impasse in cui viene ineluttabilmente a trovarsi. Esso è capace di rigenerarsi ogni volta dalle sue scorie e dalla sua ombra e a rinascere sempre attingendo ad un humus per lo più insondabile, a un dolore e a un’esperienza unici e irriducibili. 

   La priorità dell’Io come unica vera fonte di conoscenza deriva secondo Marion da “una situazione dialogica con un altro che può ingannarmi, che forse non dice la verità, che forse non esiste nemmeno. Ma la possibilità di questo altro minimale è sufficiente per sviluppare una struttura dialogica”, nella quale il “Je pense” costituisce la prima conoscenza e il riferimento ultimo. Non tuttavia in ordine temporale: esso non viene prima di un simile ineludibile tragitto dialogico, ma è piuttosto destinato a scandirne ogni passo producendo solo successivamente quelle evidenze o quei dubbi ulteriori che del pensiero filosofico costituiscono la trina sottile. “La prima certezza – dice Marion – giunge seconda”, perché l’io (moi) che sono scaturisce sempre da un dialogo più originario, che “passa all’esterno della differenza tra vero e falso, tra essere e non essere”, e nel quale il momento fondante dal punto di vista conoscitivo non è il primo sotto il profilo temporale, ma è destinato a intervenire, in un certo senso, sempre in seconda battuta. E in questo non può essere immune da un’autoreferenzialità di fondo, la quale implica a sua volta la percezione di un pericolo essenziale: quello di scoprirsi senza fondamenti in pieno volo, preso nelle vertigini di qualche contraddizione irriducibile. Il pensare filosoficamente è infatti un’esperienza pericolosa, sospesa sopra il filo di una libertà assoluta quanto priva di fondamenti: “Dire Je pense non è una dichiarazione di potere. Pensare consiste nell’assumersi ogni volta il rischio solitario di farsi esplodere in volo. Ma è il prezzo per lanciare la sua cifra specifica, per lanciare se-stesso”. 

 

Borges e la superstizione dello stile

 
Qualche anno fa, in Spagna, i giurati del Premio Bartolomé March a la Cr
ítica selezionarono per la pubblicazione in volume alcuni saggi che, per ragioni diverse, potevano essere considerati esemplari (AAVV, Críticas ejemplares, Bitzoc, Palma de Mallorca, 1986).
Tra i loro autori spiccano, insieme a molti altri, i nomi di Marcel Proust, Julien Gracq, George Steiner, Edmund Wilson, Giorgio Manganelli e di Jorge Luis Borges. Il breve scritto prescelto dall’opera di quest’ultimo è introdotto nel volume da Fernando Savater, che ne riassume brevemente il senso in maniera efficace: “il suo breve commento sopra – o, meglio, contro – la superstizione etica del lettore è una succinta propedeutica preventiva per evitare questa mistica delle pagina perfetta, in cui ogni vocabolo è inamovibile e lo stato d’animo globale superfluo o intercambiabile”.
Il saggio in questione s’intitola infatti  La supersticiosa ética del lector  (“La superstiziosa etica del lettore”) e venne pubblicato per la prima volta a Buenos Aires, nella rivista Discusión, nel 1957. Ad esso si confà specialmente l’aggettivo esemplare per la portata delle sue conseguenze e la linearità della sua esposizione.

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Gioventù e innocenza dell'Idiota

Alcune considerazioni in margine a uno scritto di Walter Benjamin su L’idiota di Dostoevskij

 

All’interno di una raccolta di scritti tradotti con il titolo italiano di Avanguardia e rivoluzione  c’è un breve saggio, un piccolo gioiello di critica letteraria e filosofica, che il loro autore, Walter Benjamin, dedica a L’idiota di Dostoevskij. 

Dopo aver premesso che la critica dovrebbe tenersi lontana dall’utilizzazione di canoni e categorie tratte dalla psicologia per valutare personaggi e opere della letteratura, per concentrarsi piuttosto sugli aspetti più spiccatamente culturali e metafisici, Benjamin entra subito nel merito, spiegando che il romanzo tratta di un episodio della vita del protagonista, il principe Myškin.

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La dimensione filosofica dei personaggi letterari

    Gli intrecci e la struttura polifonica dei romanzi del diciannovesimo secolo o dell'inizio del ventesimo sono sempre più rari e chi adotta ancora oggi tali approcci narrativi riesce a farlo solo al prezzo di riferirsi a contesti familiari o sociali decisamente più angusti rispetto a quelli di allora. Soprattutto, difficilmente si azzarda a sfiorare le problematiche di largo respiro che permeavano invece le vite di quei personaggi ancora un secolo fa. Ma a cosa è dovuta questa scarsa attitudine dei personaggi letterari che abitano le opere narrative degli ultimi decenni a cimentarsi quelle problematiche filosofiche su cui invece amavano riflettere molti grandi personaggi dell’Ottocento e del primo Novecento?

   In effetti, oltre alla difficoltà da parte dell'"Io" novecentesco - già preannunciata da Nietzsche - di lasciarsi alle spalle la propria dimensione frammentaria e di misurarsi con ricostruzioni chiare e oggettive, la letteratura contemporanea pare infatti anche restia a cimentarsi con temi e problemi di carattere spirituale o filosofico. Dopo gli Ivan Karamazov, i Kirillov, i Bazarov o, avvicinandoci a noi, il Settembrini della Montagna incantata oppure l'Ulrich di Musil, i protagonisti di pur buoni romanzi del nostro secolo sembrano muoversi in orizzonti più limitati, concedono poco spazio alla riflessione, sembra che ne abbiano perso il gusto, e si trovano per lo più alle prese con problemi quotidiani, siano essi di origine psicologica o sociale.

   Allo stesso modo il narratore, anche quando non si lasci prendere nel vortice delle azioni e dei pensieri dei suoi personaggi e cerchi di raccontare come un discreto testimone immaginario le loro vicende, a volte sembra che non osi affrontare certi temi, quasi li avesse preliminarmente espunti dai risvolti della loro vita interiore. Forse ha paura di dare corpo a quei "busti del pantheon" di cui parlava Claudio Magris in suo articolo apparso sul Corriere della Sera di qualche anno fa, e tale paura non risulta infondata, in quanto oggi rischia di suonare falso il tono di qualsiasi narratore che supponga di sapere cosa passi davvero per la testa dei suoi personaggi e si arroghi il diritto di commentare, o addirittura valutare, le loro scelte morali e culturali.

   Ma se certe soluzioni - come quella di un narratore assoluto omnisciente - si rivelano sempre più incerte e insidiose, bisogna forse dedurne che quelle problematiche morali - che costituivano parte integrante della vita di molti grandi personaggi del secolo scorso - siano ormai intrattabili e ingestibili?

   Ne Il riccio e la volpe, Isaiah Berlin ricorda come a tutti gli scrittori Tolstoj chiedesse sostanzialmente tre cose: una dose sufficiente di talento; che il tema fosse moralmente importante;  e infine che amassero ciò che era degno di amore e odiassero ciò che era degno di odio mentre erano intenti al loro lavoro, ovvero che "s'impegnassero" a conservare la nitida visione diretta dell'infanzia e non distorcessero la loro natura proponendosi di praticare un'imparzialità che era necessariamente illusoria.

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