C'è un U-Robot nel nostro futuro
In un centro internazionale di ricerca nei pressi di Las Vegas, negli Stati Uniti, è nata una generazione di robot assolutamente rivoluzionaria. Si chiama U-Robot, non deve essere confuso con Ufo-Robot e sa fare praticamente tutto. Come ogni altro Robot delle ultime generazioni può cucinare e fare le pulizie, ma non si ferma qui: sa eseguire anche lavori molto più complessi, come dirigere un'azienda, curare un paziente afflitto da vari tipi di disturbi, progettare ponti e spostarsi in quasi totale autonomia. Il prezzo? Non costa molto né acquistarlo né mantenerlo: lo si può infatti comprare in leasing con comode rate a partire da circa 700 euro al mese, a seconda delle prestazioni richieste, e cederlo usato senza che per i primi vent'anni del suo utilizzo abbia perso molto del suo valore.
Il nuovo tipo di robot è in grado non solo di eseguire i calcoli più complessi, ma anche di escogitare nuove teorie scientifiche e persino di sostenere conversazioni impegnative sotto il profilo culturale. Si è dimostrato molto utile anche nei call center, dove è stato provato nel ruolo delle normali segreterie telefoniche ed è stato apprezzato da molti clienti per le sue attitudini dialogiche e la sua capacità di ascolto. Alcuni esemplari si sono perfino dimostrati in grado di fornire un certo conforto psicologico agli utenti, tanto che alcune aziende operanti nel settore della comunicazione ne hanno già prenotati diversi esemplari.
La capacità di U-Robot vanno quindi ben oltre quella di leggere, scrivere o usare un pc: alcuni modelli sono capaci di suonare uno strumento musicale, o addirittura di comporre brani di assoluto rilievo estetico; mentre altri riescono a inventare, mediante la scrittura o la voce, fantastiche storie, o addirittura a recitare e cantare con incantevoli intonazioni. I modelli da football hanno poi la capacità di battere punizioni imparabili, di realizzare gol incredibili o assist geniali, tanto da non far rimpiangere alcuni dei più famosi numeri 10 della storia di questo sport, mentre gli esemplari più sofisticati sono stati brevettati per fornire un piacere sessuale particolarmente intenso, con tutta una gamma di opzioni da far incuriosire persino le persone più caste.
Il dragone è sempre più vicino, e non è solo
L’etichetta «made in China» non era stata ancora inventata, eppure la civiltà cinese esisteva già, ed era fiorente ed evoluta. Nemmeno il nome Cina non esisteva: sarebbe nato solo con la Qin che, appunto, si pronuncia cin. Si tratta di una dinastia che, come ricorda Federico Rampini nel suo ultimo saggio (Fermare Pechino: Capire la Cina per salvare l'Occidente, Mondadori editore), unifica sotto un’unica amministrazione gran parte del territorio cinese a partire dal 221 avanti Cristo. La terra della seta, che in seguito arriverà in Europa grazie a due monaci, e contrabbandieri, nestoriani, sarebbe poi divenuta, durante il medioevo e per merito di Marco Polo, il famoso Catai.
Non sono trascurabili i segni della presenza di tale civiltà all'arte occidentale: basti pensare all’Adorazione dei Magi dipinta da Giotto nella basilica inferiore di Assisi, in cui sono riconoscibili due personaggi cinesi, o a un affresco del Pisanello, San Giorgio e la principessa, che si trova nella chiesa di Sant’Anastasia a Verona, e in cui sono ben visibili due cavalieri dai tratti somatici asiatici, o ad alcune opere di Ambrogio Lorenzetti.
Ma soprattutto Rampini ci ricorda che Confucio è più antico di Machiavelli e che ha insegnato ai cinesi "il rispetto per l’istruzione, il senso delle gerarchie e delle regole, la venerazione per i padri, la capacità di anteporre la comunità all’individuo", tanto che lo ammirarono anche Voltaire e Montesquieu.
Sulla civiltà cinese ebbe però una grande influenza anche il buddismo, e con esso una sua certa idea del diavolo di cui ci ha trasmesso dei simboli: nel tardo medioevo, per esempio, il demonio veniva spesso raffigurato come un pipistrello, che assomiglia molto al dragone della tradizione cinese, tanto da poter suggerire l'ipotesi semiseria che il covid sia partito non per caso proprio dalla Cina, e dai pipistrelli.
Dialogando in sogno con i maestri
L'opera pittorica di Christian Olivares
Christian Olivares nasce a Valdivia, in Cile, il 13 settembre del 1944 da padre cileno e madre danese, frequenta la Scuola di Belle Arti a Santiago e poi si perfeziona all'Accademia delle Belle Arti di Ravenna. Durante la dittatura di Pinochet si mette in luce in Italia grazie a varie mostre collettive di artisti dissidenti cileni, mentre in seguito realizza mostre personali, oltre che nel suo paese d'origine, anche a Roma, Bologna e Berlino. Oggi risiede ad Amburgo, ma ha soggiornato a lungo anche in Italia, soprattutto a Bologna, a Roma e a Parma, dove ha collaborato come volontario all'ospedale psichiatrico di Colorno quando era diretto a Franco Basaglia. Sempre in Italia, e poi in Spagna, ha curato le scenografie di alcuni film di José Maria Sanchez. Ha inoltre realizzato le scenografie di alcuni spettacoli teatrali del regista cileno Raúl Ruiz Pino al festival di Avignone e della ballerina spagnola di flamenco María Pagés.
Nonostante questi pregressi, nel nostro paese è però conosciuto più per l'errore dei giudici che attribuirono un suo quadro a Pacciani, ovvero al "mostro di Firenze", piuttosto che per lo straordinario complesso della sua opera. Fu Vittorio Sgarbi ad avvertire giudici superficiali e frettolosi giornalisti che non poteva non trattarsi di un vero pittore, caratterizzato da una profonda conoscenza della storia dell'arte, assimilata e rielaborata in maniera originale.
Quella di Christian Olivares è infatti un'opera variegata di stili anche assai eterogenei ed evocativi di correnti artistiche diverse, da cui trapela costantemente una profonda cultura pittorica ed estetica. Una delle cifre stilistiche preminenti è una certa solitudine dei corpi, sorpresi spesso in un'espressione che li raccoglie, è una certa fierezza che traspare dagli sguardi e da certe espressioni dei volti, che sono spesso colti in momenti di silenzioso raccoglimento, quasi rivelando un'attitudine un po' buddista o taoista al non pensiero, al conseguimento di quel vuoto mentale che poi costituisce la massima forma di consapevolezza.
Dieci differenze tra i "settari" e i "dialogici" nella vita e su Twitter
Il presente e succinto promemoria parte dall'ipotesi che i "settari" siano una categoria psicologicamente, sociologicamente e culturalmente ben definibile, esattamente come i loro eterni contraltari, ovvero i "dialogici". Ma come si fa a distinguere, nella vita e su Twitter, gli uni dagli altri?
Prima differenza: i settari tendono ad asserire, i dialogici ad argomentare.
Seconda differenza: i settari tendono ad essere sempre d'accordo con il loro capo carismatico, o leader, mentre i dialogici talora sono critici anche verso le persone che apprezzano e stimano di più.
Terza differenza: i settari tendono a rispettare le gerarchie all'interno della loro setta; i dialogici, non identificandosi mai con alcuna setta, non hanno alcuna particolare soggezione verso qualsivoglia gerarchia.
Quarta differenza: i settari tendono a muoversi e agire in gruppo, i dialogici tendono a farlo da soli.
Quinta differenza: i settari sono inclini all'offesa, mentre i dialogici solitamente ne rifuggono.
Sesta differenza: su Twitter i settari tendono a mettere molti like, specialmente dove ce ne sono già tanti; i dialogici ne mettono in genere di meno, ma di più dove ce ne sono di meno.
Settima differenza: i settari tendono a non cambiare opinione, anche quando non ne hanno, come spesso accade, una propria; i dialogici tendono a cambiarla con circospezione.
Ottava differenza: i settari, identificandosi con la propria setta, hanno qualche difficoltà in più dei dialogici a provare vergogna, perché si appagano di surrettizie sicurezze gregarie.
Nona differenza: i settari, al contrario dei dialogici, sono per lo più incapaci di trarre un vero piacere dalla conversazione, mentre trovano soddisfazione nelle discussioni, specialmente se accese.
Decima differenza: sia nella vita sia su Twitter i settari tendono a ripetere all'infinito i luoghi comuni cari alla propria setta e talora, sbagliando coordinate, inavvertitamente anche ad altre concorrenti; ripetizioni da cui invece rifuggono i dialogici.
Negletta musica. La marginalità della musica nella formazione scolastica degli italiani.
Francesco De Sanctis sentenziò un giorno che "musica e ballo non producono valentuomini, ma buffoni". Questa lapidaria asserzione - riportata in esergo al volume La cultura musicale degli italiani, di cui si parlerà in una tavola rotonda coordinata da Carla Nolledi all'Istituto musicale Boccherini di Lucca il sabato 27 Novembre (ore 17) - costituisce ancora oggi un emblema eloquente del rapporto della scuola italiana con l'educazione musicale. Se infatti la radio e la televisione hanno in parte surrogato i compiti della scuola, il ruolo della musica nella formazione dei nostri studenti è sempre rimasto del tutto marginale, e questa circostanza, se si considera l'importanza dell'Italia nella storia della musica e della musica nella storia d'Italia, non può che risultare sconcertante.
Nel saggio che apre il volume, La musica nella formazione scolastica degli italiani, Luca Aversano spiega che "le ragioni di questo svilimento pedagogico si possono ricondurre alle caratteristiche proprie dell’arte musicale: la sua sensualità, la sua immateriale fuggevolezza, il suo potere di sollecitazione emotiva di certo non ne favorivano l’assunzione all’interno di un paradigma educativo fondato essenzialmente su norme trasmesse attraverso testi verbali, in un canone ristretto e selezionato".
Considerando tutto ciò che non è funzionale alla realizzazione di tale paradigma come superfluo o addirittura dannoso, fino al secolo scorso anche illustri intellettuali che si occupavano più o meno direttamente di scuola non si posero il problema dell'utilità della musica sotto il profilo formativo. Per esempio, "Lodovico Antonio Muratori, sacerdote proveniente da formazione gesuitica, non considerava la musica tra le discipline degne di essere insegnate nella scuola e nell’università, pur essendosi molto occupato dei rapporti tra poesia, dramma e musica, non solo sul piano teorico, ma anche nell’esperienza pratica". Le cose non sono d'allora molto cambiate, nonostante che l’utilità di un'educazione musicale sia riconosciuta in molti paesi dotati di sistemi scolastici particolarmente efficaci.
Siamo sicuri che sia tutta colpa della DaD?
Con un caso positivo si resta tutti in classe. Con due solo i vaccinati. La DaD è prevista solo da tre positivi in su. Lo ha annunciato qualche giorno fa il ministro dell'istruzione Patrizio Bianchi. D'altra parte, qualche rischio aggiuntivo di contagio deve essere pur preso, anche dagli studenti e dai docenti che non hanno ancora potuto fare la terza dose, pur di evitare la DaD, che secondo la maggior parte dei politici e dei giornalisti nostrani è la causa principale del malessere in cui versa la nostra scuola, o perlomeno della sua scarsa efficienza durante la pandemia.
Questo malessere ebbe inizio con il DPCM del 4 Marzo 2020, in cui venne decretata la sospensione della didattica in presenza per contenere l’emergenza epidemiologica da COVID-2019. Fino alla fine dell'anno scolastico, la didattica fu a distanza, e secondo alcune indagini statistiche questa non avrebbe fornito buoni risultati. In particolare, secondo una che ha coinvolto 246 istituti e 73.286 studenti di quarta e quinta superiore, il carico di studio, la sua efficacia e la capacità di concentrazione sarebbero decisamente diminuiti. Terminato l'anno scolastico, il 79,6%degli studenti intervistati ebbe infatti a dichiarare che durante la didattica a distanza i compiti erano aumentati rispetto alle lezioni tradizionali e solo il 31,6% riteneva che sarebbe stato utile continuare a usare la DaD, insieme alle lezioni in aula, anche dopo l’emergenza del Covid-19, mentre il 42,8% pensava di non avere una preparazione adeguata per affrontare il prossimo anno scolastico o l’Esame di Stato.