Theodor W. Adorno, Ernest Ansermet e la musica nuova
Theodor W. Adorno considera la convinzione che Beethoven sia più comprensibile di Schönberg un “inganno” e pensa che quanti sono scandalizzati dalle dissonanze siano in realtà spaventati da se stessi: è unicamente per questo che le dissonanze riescono loro insopportabili. In Filosofia della musica moderna (Torino, 1969 e 2002, Einaudi editore) il filosofo francofortese, al quale si deve forse più che a ogni altro la giustificazione teorica della musica dodecafonica, equipara coloro che s’indignano dinanzi alla nuova musica a chi tratta il classicismo viennese come un prodotto di consumo qualsiasi, al pari di “ninnoli casalinghi. In realtà un ascolto adeguato di quegli stessi pezzi di cui l’ometto della metropolitana fischietta i temi, esige uno sforzo ancora maggiore che non la musica più avanzata: e cioè quello di togliere di mezzo la vernice di falsa esibizione e di formula reazionaria ristagnate col tempo”.
L’equiparazione da parte di Adorno di quanto di musicale viene ancora oggi, dopo uno o più secoli, ascoltato da molti con grande trasporto a dei “ninnoli casalinghi” ha tuttavia il sapore di un elitarismo mascherato da sortilegio dialettico e non pare esente da una certa arroganza teorica. Quest’impressione può trovare una qualche conferma nel fatto che Adorno fa propria la tesi di Clement Greeberg secondo cui l’arte può essere distinta “in falsità e avanguardia”, dove ciò che s’intende per “avanguardia” viene a coincidere con l’unica possibile via autentica, mentre tutte le altre opzioni vengono relegate a manifestazioni culturali false e reazionarie. Si tratta ovviamente di una tesi estrema e forse in parte provocatoria, ma utile per evidenziare l’essenziale autoreferenzialità della posizione di Adorno, che riduce qualsiasi critica alla nuova musica ad una sostanziale incapacità di comprenderla, quando non a una vera e propria malafede intellettuale.
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L'eco di un lamento che ancora risuona
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi fu un classicista sui generis: legato all’esperienza della riviera ligure accanto a Angiolo Silvio Novaro, senza essere un tipico rappresentante del mondo ligustico, prefigurò un paesaggio ‘esistenziale’ cui avrebbero in seguito attinto anche Sbarbaro e Montale. Nato a Genova il 6 gennaio del 1871, coltivò con cura il verso carducciano rivelando un certo gusto per l’imitazione dei suoi modelli lirici prediletti. Si misurò con la lezione stilistica di Leopardi e dimostrò un certo eclettismo, cercando nella letteratura anche delle gratificazioni storiche e personali. Pur trovando conforto nella tradizione la sua fu anche una poesia impegnata a manifestare il proprio dissenso con la società del suo tempo.
Da ragazzo s’innamorò perdutamente della figlia di un rivenditore di fruste, di peperoni e di fulminanti. Poiché la fanciulla non lo corrispose, caricò una vecchia pistola e si sparò al cuore. Riuscì a salvarsi, portando però per tutta la vita le tracce delle ferite mal rimarginate. Si sposò poi, nel 1901, con Francesca Giovannetti, una ragazza di Sant’Anna a Pelago, senza essere mai pienamente accettato dalla sua famiglia. Ebbero un figlio, Tristano, che fu afflitto da persistenti malattie e fu grande causa di apprensione per entrambi i genitori.
Sul merito e le sue declinazioni
Qualcuno pensa che la scuola sia sempre stata così, come molti studenti oggi la percepiscono: stressante, ansiogena e frustrante. Anzi, alcuni ritengono che la scuola lo fosse di più in passato e che prima del 1968 ci fossero ancora maggiori difficoltà e motivi di stress, difficoltà che oggi gli studenti non sono più pronti ad affrontare perché sono un po’ viziati, poco abituati a studiare e darsi da fare. In ogni caso, vera o falsa che sia questa tesi, che ci siano delle notevoli differenze è abbastanza chiaro a tutti.
Luca Ricolfi, per esempio, in articolo che si può leggere per intero sul sito della Fondazione Hume, di differenze ne individua una importante: “negli anni ’60, il tipico ragazzo che non ce la faceva proveniva da una famiglia povera, in un’Italia che non aveva ancora raggiunto l’unità linguistica (come Tullio De Mauro ci ha mille volte ricordato). Oggi, invece, se un ragazzo non ce la fa, spesso è semplicemente perché la scuola media non gli ha fornito le basi per frequentare un liceo, e meno che mai per frequentare un liceo classico, con il latino e il greco. È innanzitutto da questa rinuncia della scuola media a raggiungere standard minimi di competenza linguistica (una rinuncia aggravata da tre anni di pandemia) che derivano le enormi difficoltà di tanti nostri ragazzi non appena, con la scuola secondaria superiore, incontrano la scuola vera.”
Ricolfi ha in buona parte ragione. Ma da cosa proviene questa incompetenza linguistica? E più in generale, questa differenza tra gli anni 60 e oggi dipende davvero da qualche rinuncia della scuola media o è dovuta piuttosto a una tipologia di studenti e docenti molto diversi? L’habitat culturale in cui viveva uno studente liceale di un liceo classico negli anni 60 è lo stesso di oggi? Il tipo di nutrimenti letterari e cinematografici, musicali, sociali e politici sono gli stessi? Oppure il tempo che in quegli anni si passava a leggere classici, a discutere di politica, o a frequentare un affumicato cineforum dove magari proiettavano Pabst o Dreyer, oggi è stato trascorso dagli studenti attuali a vedere discutibili film commerciali, pieni spesso di una violenza gratuita e di effetti speciali fine a se stessi, a giocare alla play station e a chattare sui social? E non occorre scomodare Pabst o Dreyer: se fino a una ventina di anni fa capitava ancora che una buona percentuale di studenti in ogni classe delle superiori avesse visto un film di Charlie Chaplin o Vittorio De Sica, oggi questa evenienza è un’assoluta rarità, così come lo è incontrare studenti liceali che abbiano ascoltato per intero e dal vivo un brano di Mozart o Beethoven, o che abbiano letto un classico che non studiano a scuola, per libera scelta e curiosità, e non perché parte di un programma e indotti a farlo dal proprio insegnante.
Gaetano Salvemini e le insidie attuali per la democrazia
Gli scritti di Gaetano Salvemini raccolti con il titolo Sulla democrazia sono testi relativi a conferenze tenute negli Stati Uniti tra il 1934 e il 1940, quando Salvemini era docente alla Harvard University, ma sembrano per molti versi scritti qualche giorno fa. La democrazia consiste per Salvemini, come si evince dalla prima di queste conferenze, del 1934, in tre diversi gruppi d’istituzioni: uno che garantisce “i diritti individuali del cittadino, come habeas corpus, libertà di pensiero, libertà di culto, libertà di educazione, libertà di movimento, libertà di lavoro”; un altro gruppo che garantisce “le libertà politiche del cittadino, come libertà di parola, libertà di stampa, libertà di associazione e di riunione”; e infine in una terza componente, potremmo dire di garanzie istituzionali democratiche, che consistono nella possibilità di cambiare il partito al potere attraverso libere elezioni: “i cittadini che non condividono le opinioni del partito al potere hanno il diritto di esporre pubblicamente le ragioni del loro dissenso e di formare partiti di opposizione il cui scopo è il rovesciamento del partito al potere”.
L’esistenza di una competizione è infatti “una caratteristica essenziale di una costituzione democratica. La libertà politica è sostanzialmente il diritto del cittadino di dissentire dal partito al potere”. Da questo diritto nascono infatti per Salvemini “tutti gli altri diritti del cittadino”. Nelle dittature si verifica invece la circostanza opposta: “il diritto di opporsi al partito al potere è soppresso” e i partiti di opposizione sono considerati “organizzazioni criminali”. Nei regimi dittatoriali, infatti, i diritti dei cittadini e le loro libertà politiche sono “alla mercé del partito al potere”.
A volte per designare dei sistemi non democratici, cercando di mascherarne la natura dispotica e dittatoriale, si inventano termini nuovi. Con il fascismo avvenne secondo Salvemini qualcosa del genere: all’inizio infatti il termine “fascista” non trasmetteva nessuna idea chiara sulla costituzione politica auspicata. Se il fascismo si fosse presentato sotto una denominazione tradizionale, e quindi come un’autocrazia o una tirannide, avrebbe subito perso gran parte della sua capacità di attrarre consensi, ma mascherando la sua reale visione politica e i suoi progetti sotto una nuova denominazione dal significato poco chiaro riuscì a convogliare su di sé attenzioni, speranze e consensi in modo trasversale e diffuso.
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Il ricordo delle foibe, tra omissioni e oblio
Il libro di Erik Gobetti E allora le foibe è ricco di considerazioni interessanti e in parte condivisibili, anche se al prezzo di voler talora fronteggiare, seppur con dati indubbiamente utili alla ricostruzione della vicenda, delle tesi che l’autore individua come falsi obiettivi polemici. Nel perseguire quest’intento, pur essendo una buona fonte d’informazioni e di analisi su alcuni aspetti, risulta omissivo su almeno due questioni centrali: quella relativa alle modalità specifiche con cui vennero uccisi gli infoibati e il lungo oblio sulla loro sorte.
Ma procediamo con ordine. Gobetti ricorda giustamente che il regime fascista aveva imposto “l’uso obbligatorio della lingua italiana nei luoghi pubblici e persino nelle chiese (con il Concordato del 1929)”, che aveva italianizzato “forzatamente nomi, cognomi e toponimi”, ordinato “la chiusura delle scuole, delle associazioni e dei luoghi di ritrovo sloveni e croati. Oltre alla minaccia portata alle identità nazionali, la politica fascista aveva anche comportato “un generale impoverimento della popolazione slava, esclusa dai posti di potere, da molti impieghi pubblici e svantaggiata in ogni contesto lavorativo.” Ma non ci fu solo questo: sull’isola di Arbe/Rab, per esempio, a poche miglia marine da Fiume, vennero “internate in totale, nell’arco di circa un anno, dall’estate del 1942 al settembre del 1943, 30.000 persone”, di cui almeno 1500, in gran parte donne e bambini, morirono per fame, inedia ed epidemie.