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Il Marx di Isaiah Berlin

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    Uno dei massimi intellettuali e saggisti d'area liberale del Novecento, Isaiah Berlin, in un libro ormai classico pubblicato per la prima volta nel 1939 e uscito quest'anno in traduzione italiana per Adelphi a cura di Henry Hardy, definisce Karl Marx come "il vero padre della storiografia economica moderna e forse anche della sociologia moderna", almeno "nella misura in cui è possibile attribuire questo titolo a un'unica persona".

    Tutta l'imponente e geniale architettura filosofica costruita da Marx potrebbe aver preso le mosse da un'idea enunciata in un verso di Rassegnazione da Friedrich Schiller: "la storia del mondo è la giustizia del mondo". Sul fatto che la storia proceda sempre verso una maggiore razionalizzazione della realtà lo storicismo hegeliano e quello di Marx secondo Berlin concordano: "la scissione nacque al momento di stabilire quale peso dovesse essere attribuito ai termini cruciali razionale e reale".

    Com'è noto, uno dei motivi di discussione tra destra e sinistra hegeliana verte proprio sul diverso peso da attribuire alle due parti di una celebre formula di Hegel: "il reale è razionale e il razionale è reale". Mentre la destra tendeva a sottolineare la prima parte dell'affermazione, la sinistra metteva in risalto la seconda. La storia, in questa prospettiva, non poteva che consistere nella progressiva razionalizzazione della realtà, e cioè non poteva che progredire verso il superamento, in senso hegeliano, delle sue contraddizioni, e quindi, per Marx, del fatto che mentre la produzione, dopo la prima rivoluzione industriale, era diventata collettiva, la proprietà dei mezzi di produzione era rimasta in mani private. La Storia avrebbe provveduto a superare una tale contraddizione facendo in modo che i capitali si accumulassero nelle mani di un numero sempre più ristretto di persone, mentre un numero sempre maggiore sarebbe diventato sempre più povero. Una volta che fosse giunta a completa maturazione la contraddizione strutturale di partenza si sarebbe instaurata, in una prima fase, la dittatura del proletariato e poi il comunismo vero e proprio, ovvero la società senza classi.

  • Isaiah Berlin
  • Karl Marx

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Un'intervista al Principe di Salina sull'Italia di oggi

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I: La ringrazio ancora, Don Fabrizio, per avermi concesso quest'intervista, che inizio col porle una domanda che ho in serbo da tempo: lei ha affermato, all'interno dell'opera del suo discendente che l'ha fatta conoscere al grande pubblico, che i siciliani non vogliono cambiare, non vogliono migliorare, perché in fondo presumono di essere perfetti, perché la loro vanità, ma anche il loro desiderio d'oblio, gli impediscono di desiderare o auspicare qualsiasi mutamento. Ritiene quindi che i problemi fondamentali della Sicilia, ma anche dell'Italia, visto che si tratta in buona parte degli stessi, siano problemi insolubili?

 

Principe: A quali problemi si riferisce?

 

I: Mi riferisco per esempio alle ampie sacche d'inefficienza e corruzione, alla burocrazia ipertrofica che le alimenta, ai molti giovani che anche per queste ragioni sono indotti a emigrare e al fatto che, nonostante alcuni successi nella lotta alla criminalità organizzata, le mafie continuano a prosperare come prima e più di prima.

 

Principe: Come ebbi già a dire al cavalier Chevalley, alla cui cortese offerta di un posto nel Senato del nuovo regno replicai illustrandogli le ragioni della mia disillusione, secondo me ormai è tardi per cambiare. Una volta che si è formata la crosta viene meno ogni reale intenzione di cambiamento. Per questo i giovani farebbero bene ad andarsene prima. Vede, nessun problema del genere è insolubile, ma tutti lo sono quando non si ha alcuna intenzione di affrontarli e risolverli. Prenda per esempio il problema della criminalità organizzata, visto che vi ha fatto cenno con la sua domanda: ma lei pensa veramente che se uno Stato moderno volesse realmente combatterla ed eliminarla in oltre un secolo non ci sarebbe riuscito?

 

Intervistatore (I): Non saprei, secondo lei?

 

Principe: Nessun Stato moderno discretamente efficiente e realmente democratico è impotente verso le mafie: può trovarsi a gestire con qualche difficoltà questi fenomeni per qualche periodo di tempo, ma poi ne viene a capo. Diverso è il caso quando la criminalità organizzata ha avuto modo di diventare per fatturato di gran lunga la prima azienda di un paese. Quale Stato potrebbe mai avere interesse a smantellare un'impresa simile? Quale potrebbe trovare la forza e la determinazione per farlo? Ha idea del contraccolpo economico, e dunque anche politico, che una simile operazione comporterebbe?

 

I: Immagino un notevole danno economico, e di riflesso magari anche politico. In effetti la criminalità organizzata è di gran lunga la prima azienda italiana. Se non ricordo male la sola Ndrangheta è la quarta organizzazione di stampo mafioso nel mondo, con circa settanta miliardi di fatturato.

  • Il Gattopardo
  • Italia
  • Mafia
  • Tomasi Lampedusa

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Popper, Croce e le insidie di un paragone ellittico

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    Karl Popper riteneva che le regole fondamentali del metodo scientifico non fossero molto diverse da quelle della democrazia. Così come una teoria scientifica, per poter essere considerata tale, deve essere falsificabile, analogamente in democrazia chi viene eletto dal popolo per governare deve sottoporre il suo operato politico al giudizio del popolo e deve poter essere sostituito qualora il popolo ritenga che abbia governato male. Sia le teorie scientifiche, sia chi è stato eletto dai cittadini a ricoprire qualche carica politica deve sottoporsi alla controprova dell’esperienza e della storia. Così come una teoria che non ammette la possibilità di essere falsificata e non indica in quali circostanze potrebbe esserlo non è scientifica, così una società in cui chi governa non sottopone il proprio operato al giudizio degli elettori, nei tempi e modi previsti dalla legge, non è democratica. 

    Il marxismo è, secondo Popper, un tipico esempio di teoria non scientifica, in quanto non ha mai ammesso di poter essere falsificata dalle circostanze storiche che hanno smentito le sue previsioni. Trattandosi di una teoria imponente, che è riuscita a operare una sintesi poderosa e coerente tra l’idealismo dialettico di Hegel, il materialismo di Feuerbach, il pensiero degli economisti classici e anche un certo alone di scientismo positivista, ha egemonizzato l’ampio e articolato movimento che da ormai oltre mezzo secolo si stava battendo per realizzare una società che fosse più giusta oltre che più libera.

  • Croce
  • Paragone Ellittico
  • Popper

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Pentimento e perdono

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   Intorno a La fragilità del male di Dietrich Bonhoeffer.


   “Chi ama non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto,” si legge nella Prima lettera ai Corinzi (13:5), e Dietrich Bonhoeffer, ne La fragilità del male, prende spunto da questo passo per osservare che, mentre la giustizia sembra illuminarci la strada “determinando il bene e il male, l’amore al contrario è cieco, consapevolmente cieco. Vede il male, ma non ne tiene conto: perdona. Soltanto l’amore può farlo. Dimentica. Non serba rancore”. Questo costituisce a suo avviso, e certo non solo per lui, un punto centrale per il cristianesimo: “se solo comprendessimo questo concetto: l’amore non serba rancore. Ogni giorno è un giorno nuovo che affronta con rinnovato sentimento, dimenticando il passato. Per questo motivo gli uomini si fanno beffe di lui, lo scherniscono. E nonostante questo continua ad accrescersi sempre di più”.
   Gesù dice anche a Pietro di perdonare non “fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette” (Matteo, 18: 21-22) e ciò perché “perdonare e scusare non sono azioni che si contano o che hanno un limite. Non preoccuparti se hai ragione oppure no. Spetta a Dio decidere. Tu puoi farlo senza fine, perché il perdono non ha inizio e non ha termine. Si verifica quotidianamente e di continuo, perché proviene dal Signore. È la liberazione da ogni ostilità nei confronti del prossimo, perché così siamo liberati da noi stessi. Dobbiamo rinunciare al nostro proprio diritto per aiutare e servire l’altro”.

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Piero Martinetti, Simone Weil e l'attualità del marcionismo

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     Piero Martinetti e Simone Weil sono morti entrambi nel 1943 e si può presumere che ignorassero reciprocamente le loro opere. Ebbero entrambi atteggiamenti pubblici intransigenti verso il fascismo e il nazismo: la Weil tornò appositamente in Europa dagli Stati Uniti per combattere Hitler e Martinetti fu l’unico filosofo tra la dozzina di professori che su 1200 accademici italiani si rifiutò di prestare giuramento al regime. Inoltre, entrambi mostrarono qualche simpatia per il marcionismo.  

    Marcione di Sinope fu un eretico della metà del secondo secolo che considerava il Vecchio Testamento come il prodotto di un Dio che aveva tutti i pregi e i difetti dell’umanità e la cui legge risultava da una miscellanea di giustizia e di arbitrio, di amore e odio. Il Messia che aveva promesso non era mai giunto sulla terra, mentre un altro Dio, quello che aveva ispirato i primi tre vangeli, aveva mandato suo Figlio, Gesù Cristo, nel mondo per liberare gli uomini dagli effetti della materia e della legge di quel primo Dio.

    Secondo la lettura che viene fornita da Ernst Bloch, Marcione fu colui che “cercò di strappare radicalmente Gesù dal quadro biblico-giudaico durato fino ad allora. E ciò avvenne, notiamolo bene, senza una qualsiasi tensione o inimicizia verso i Giudei (Marcione venerava il giudeo Paolo come il suo maestro); ma nulla Gesù aveva in comune con la Bibbia di Jahvé fintanto che essa rimane tale. Marcione non solo poneva il messaggio di Cristo in contrapposizione con l’Antico Testamento, ma ne faceva qualcosa di assolutamente diverso; la rottura con l’Antico segue dunque al salto dell’Evangelo nel nuovo che appare senza confronti. In tal modo è in primo luogo a partire da Marcione che si è sviluppato ed è stato posto in risalto in genere il concetto di un Nuovo Testamento” (E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo, trad. it. Milano, 1971; ed. cit. 1983, p. 227).

  • Hans Jonas
  • Marcionismo
  • Piero Martinetti
  • Simone Weil

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Il coefficiente di Gini e un'idea liberale di giustizia

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    Il proposito di coniugare gli ideali di libertà e di giustizia, riproposto con alterne fortune da oltre due secoli, è sembrato erroneo, vano o improbabile tanto a molti liberali quanto a molti socialisti. Se per quelli che lo hanno adottato le sconfitte politiche sono state più frequenti delle vittorie, tuttavia nel lungo periodo non si può non registrare una crescita in parallelo sia del socialismo riformista e liberale rispetto a quello massimalista e terzo-internazionalista, sia di un liberalismo sempre più spesso temperato da correttivi volti a favorire una ridistribuzione complessiva della ricchezza.

    Nonostante le dispute che coinvolsero socialisti liberali o liberalsocialisti come Aldo e Nello Rosselli, Piero Calamandrei, Gaetano Salvemini, Aldo Capitini, Guido Calogero, Ernesto Rossi, Norberto Bobbio e molti altri, il loro tentativo di dare vita a un tipo di società che cercasse di coniugare in maniera efficace i valori della libertà e della giustizia è stato recepito dai padri costituenti, che ne hanno fatto due riferimenti cruciali della carta costituzionale. Alle riserve di Benedetto Croce circa la commistione di due principi a suo avviso eterogenei come quelli di libertà e di giustizia, rispose poi nel merito Guido Calogero, secondo il quale l’ideale di giustizia – che non significa ugualitarismo economico o sociale, ma l’impegno delle comunità a garantire ad ogni cittadino una dignità sociale e una disponibilità economica idonee a esercitare quelle libertà fondamentali altrimenti destinate a restare astrazioni sulla carta dei diritti –  è fondamentale per la realizzazione di una vera uguaglianza nel godimento dei diritti fondamentali previsti dallo Stato liberale: “la civiltà – scriveva infatti Calogero – tanto meglio procede quanto più la coscienza e gli istituti del liberalismo lavorano ad inventare e a instaurare sempre più giusti assetti sociali, e la coscienza e gli istituti del socialismo a rendere sempre più possibile e intensa e diffusa tale opera di libertà”.

   Oggi le differenze tra destra e sinistra non consistono più, come un secolo fa, nel proporre due strutture diverse ed opposte della società (in base alla presenza o assenza della proprietà privata dei mezzi di produzione), ma sono più che altro riconducibili a dosaggi diversi dell’intervento dello Stato nell’economia. Dopo John Maynard Keynes non è affatto detto che anche un governo a guida liberale non ritenga opportune misure di welfare più o meno permanenti: una certa giustizia distributiva, infatti, non ha solo l’effetto di realizzare un ideale di tipo etico-politico, ma anche quello di rendere la società meno conflittuale e dunque più efficiente e produttiva, nonché quello, non secondario, di favorire la crescita della domanda interna, con tutto ciò che può seguirne in termini di ricaduta sull’offerta e sui livelli occupazionali.

  • Coefficiente Di Gini
  • Giustizia

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