La "Riforma Fioroni" e gli esami di "riparazione".

 

  La “riforma Fioroni” ha reintrodotto nella scuola gli esami di riparazione (anche se il ministro non vuole che li si chiami così) e lo ha fatto in un modo che merita a mio avviso di essere esaminato attentamente, perché rischia di far fare un passo indietro alla scuola italiana e di avere effetti controproducenti sulla formazione umana e culturale degli studenti. 
    In molti tra gli “addetti ai lavori” eravamo da tempo convinti che ci fosse bisogno di una riforma della scuola, e in particolare dei criteri e delle procedure volte a stabilire in che modo si dovesse decidere in merito alla promozione o meno di uno studente all’anno successivo. Ma la riforma in via di attuazione adotta criteri e procedure che mi lasciano perplesso per diversi motivi.

  

   Con la reintroduzione degli esami di riparazione, infatti, gli studenti possono trovarsi a dover ripetere l’anno scolastico indipendentemente dalla loro valutazione complessiva, ovvero, in termini più concreti e operativi, dalla media dei loro voti. Gli stessi criteri per la determinazione dei crediti scolastici, essenzialmente basati sulle medie dei voti conseguite, verrebbero infatti ignorati a fronte di anche soltanto una insufficienza che permanga nelle valutazioni degli esami di riparazione. In questo modo, anche uno studente che abbia mostrato di  possedere buone attitudini per cinque o sei discipline, che abbia dimostrato un generale impegno nello studio e buone capacità, competenze e conoscenze complessive, un discreto interesse e buone motivazioni per tematiche diverse, rischierebbe di non essere promosso qualora dovessero permanere lacune anche sporadiche nella sua preparazione.
   Le ragioni che possono determinare la permanenza di lacune disciplinari in grado di determinare la “bocciatura” di uno studente sono diverse: la prima, e probabilmente la più frequente, è uno scarso impegno nello studio delle stesse discipline; la seconda può essere connessa con alcune difficoltà che lo studente continua ad incontrare nel loro apprendimento, imputabili direttamente alle sue capacità e alla sua personalità; la terza può essere ricondotta ad un dialogo didattico non efficace con l’insegnante.
   Ovviamente, queste tre ragioni possono essere tutte compresenti; anzi, questa costituisce forse la circostanza più diffusa. Ma se la prima può essere imputabile allo stesso studente, della seconda questi non può essere ritenuto responsabile, mentre l’ultima dipende dal rapporto che ogni studente ha con il suo insegnante. Una relazione didattica è infatti una relazione tra persone, con i loro caratteri, le loro impostazioni culturali e i loro modi di comunicare, e non si può pretendere che il loro incontro si riveli comunque e sempre efficace all’interno del dialogo educativo. Si tratta infatti di una difficoltà quasi fisiologica, statisticamente non scongiurabile e difficile da eliminare completamente, pur essendo possibile ridurne gli effetti negativi. Nessuno dei due, né lo studente né l’insegnante, possono infatti essere ritenuti interamente responsabili della situazione, perché una analoga può presentarsi all’interno di ogni relazione interpersonale, e tuttavia una normativa adeguata potrebbe fare in modo che le conseguenze più nocive di questa circostanza sulla vita scolastica dello studente siano evitate.
   Tra queste conseguenze negative, bisogna anche considerare l'ipotesi che si verifichi un fenomeno già piuttosto frequente nella scuola di venti o trenta anni fa, quando, tra l’altro, vi erano meno materie da studiare, meno “distrazioni”, cioè un minor numero di alternative per impiegare il proprio tempo dopo le ore di scuola, e quindi più tempo da dedicare alla lettura e allo studio: gli studenti che incontrano persistenti difficoltà in una o due discipline potrebbero infatti, come allora, essere indotti a concentrare tutte le loro energie sulle materie in cui sono meno bravi, distogliendole da quelle verso cui sono più portati; effetto, quest’ultimo, che significherebbe l’implicita svalutazione delle loro specifiche capacità e delle loro attitudini e che contrasterebbe apertamente con quanto è stato più volte ripetuto negli ultimi anni, anche da ministri diversi, sulla centralità dello studente nel processo educativo e formativo.
   Per evitare tutte queste controindicazioni della “riforma Fioroni” credo che si dovrebbe tener conto, ai fini dell’ammissione alla classe successiva, non solo dei risultati nelle discipline in cui lo studente in questione è meno bravo, ma anche di quelle in cui è più bravo.
   Sebbene sia necessario far fronte al fenomeno diffuso “dell’abbandono” di alcune discipline (spesso anche di quelle caratterizzanti il percorso di studi) come la “riforma” si propone di fare, credo sia possibile conseguire questo obiettivo anche in modo diverso rispetto a quello previsto dal ministro Fioroni. Ciò sarebbe possibile tenendo conto – con un criterio uniforme e non affidato interamente alla discrezionalità dei consigli di classe, che come è noto possono comunque, attraverso “il voto di consiglio”, intervenire in corso d’opera per mitigare gli effetti collaterali negativi di qualsiasi norma – delle valutazioni che a fine anno risultano ancora negative in modo proporzionalmente maggiore di quello attuale per la definizione dei “crediti”, per esempio abbassandoli di un punto in più rispetto a quanto si è fatto sino ad oggi nel caso di insufficienze gravi.
   Quest’ipotesi non escluderebbe che, nel caso di persistenti e gravi lacune disciplinari, l’alunno debba ripetere l’anno, ma permetterebbe di valorizzare al meglio quelle che sono anche le qualità e le attitudini degli studenti.
   Per esempio, a fronte di una pagella con un 4, due 5, un 6, tre 7 e tre 8 un alunno rischierebbe, in base alla nuova riforma, di essere bocciato a Giugno. Qualora non lo fosse, correrebbe comunque il serio rischio di essere bocciato a Settembre, e ciò a fronte della sicura promozione a Giugno di uno studente con tutti 6 e, quindi, con una media voti inferiore.
   Se invece si decidesse di tener conto anche delle valutazioni positive, si potrebbe stabilire – è solo una ipotesi tra altre possibili – quanto segue: nel caso che uno studente abbia conseguito una media-voti sufficiente verrebbe comunque promosso all’anno successivo, essendo la bocciatura a Giugno predeterminata nel caso di almeno quattro insufficienze, o di tre insufficienze di cui almeno due gravi (cioè, grosso modo, come si è fatto sino ad oggi). Le sue insufficienze gravi, però, andrebbero ad incidere in proporzione più rilevante rispetto a quanto accade attualmente sul suo credito scolastico. Se queste poi dovessero permanere fino all’ultimo anno, verrebbero comunque menzionate  - nel diploma che lo studente potrebbe comunque conseguire grazie alla sua buona preparazione in altre discipline e all’aver comunque condotto complessivamente a buon esito il suo processo formativo - le materie in cui ha una preparazione ancora insufficiente e ciò gli precluderebbe l’eventuale accesso alla facoltà universitarie che con quelle discipline sono affini: (per esempio, uno studente che ha un 4 in matematica non potrebbe iscriversi a ingegneria).
   Questa ipotesi avrebbe anche il vantaggio più generale di tenere in maggiore considerazione le indicazioni fornite dalla scuola superiore per l’ammissione alle facoltà universitarie, facendo riferimento alla loro certificazione – più articolata di quella attuale – piuttosto che agli esiti, di affidabilità alquanto discutibile, dei quiz d’ingresso praticati dal molte facoltà universitarie a numero chiuso.
   Il fatto che, in diverse occasioni, alunni diplomatisi con 100/100 non siano riusciti a superare i test d’ingresso in alcune facoltà (per esempio quelli per l’accesso a Medicina), mentre tali test sono stati superati da studenti che si erano diplomati con una votazione inferiore a 80/100, pone infatti di fronte a un’alternativa: o gli insegnanti che hanno valutato la preparazione dei loro studenti nel corso di un quinquennio con centinaia di verifiche non sanno fare il loro mestiere, oppure il modo in cui vengono concepiti e realizzati i test d’ingresso da parte di alcune facoltà universitarie sono inadeguati. Poiché credo che debbano essere ritenute più affidabili centinaia di ore di verifica da parte di docenti che hanno trascorso molte ore con i loro studenti piuttosto che un test a risposte chiuse eseguibile in una o due ore, mi pare che l’Università italiana dovrebbe riconoscere un ruolo più significativo al lavoro svolto dagli insegnanti delle scuole superiori.
   Inoltre, questa ipotesi di lavoro – più semplice sia rispetto alla normativa attuale sia rispetto alla “riforma Fioroni”, perché non prevede né l’obbligo di estinzione del debito a Settembre né gli esami riparazione - oltre ad evitare di bloccare la carriera scolastica degli studenti comunque complessivamente meritevoli, avrebbe il vantaggio di far risparmiare alle famiglie i costi delle eventuali lezioni private necessarie per affrontare gli esami di riparazione, mentre la scuola potrebbe continuare ad organizzare, come adesso, corsi di recupero durante l’anno scolastico per coadiuvare gli studenti nel recupero delle insufficienze. 
  Nondimeno, gli studenti sarebbero fortemente incentivati a integrare la loro preparazione e a colmare le loro lacune, e ciò per almeno tre motivi: il rischio di essere comunque non promossi nei casi previsti; il vedersi ulteriormente decurtato il loro credito scolastico; il vedersi preclusa la possibilità di iscriversi a quelle facoltà universitarie affini alle discipline in cui non hanno conseguito una preparazione sufficiente.
   Una simile ipotesi scongiurerebbe tuttavia altre possibili conseguenze negative della riforma: in primo luogo, la possibilità che uno studente che ha qualche seria difficoltà soltanto in una o due discipline, o che non ha potuto istaurare un efficace dialogo educativo e/o didattico con il suo insegnante, venga prima bocciato e poi eventualmente indotto a cambiare tipo di scuola; in secondo luogo, che aumenti in misura massiccia il numero degli studenti bocciati, con la conseguenza di uno slittamento progressivo dalle scuole più difficili a quelle più semplici e da queste ultime all’ingresso anticipato nel mondo del lavoro, con un conseguente prevedibile incremento dell’abbandono scolastico; in terzo luogo, l’esodo verso le scuole private di un numero ancora maggiore di studenti rispetto alla situazione attuale. Quest’ultimo, in particolare, potrebbe costituire un effetto collaterale “non imprevedibile” – e forse “non imprevisto” - della “riforma Fioroni”.