Guerra giusta e guerra ingiusta

Georg Bernard Shaw sosteneva che in taluni casi la violenza non solo era giustificabile, ma anche doverosa. Per esempio, se camminando per strada si vedono delle persone che picchiano selvaggiamente un bambino, si può decidere di tirare lungo facendo finta di niente, si può telefonare alla polizia affinché intervenga, o si può decidere, almeno qualora si ritenga di possedere la necessaria forza fisica, d’intervenire personalmente. Nel primo caso il nostro comportamento sarebbe di fatto complice di quello degli aggressori, mentre nel secondo sarebbe molto probabilmente inefficace, perché prima che la polizia sia giunta sul posto il bambino sarebbe con ogni probabilità già stato malmenato, e quindi una simile scelta risulterebbe di fatto a sua volta complice dell’aggressione, anche se in modo più indiretto. L’unica azione che risulterebbe effettivamente esente da qualsiasi complicità con gli aggressori risulterebbe pertanto la terza, che quando ritenuta presuntivamente efficace (ovvero quando si ritenga di essere fisicamente in grado di opporre alla violenza perpetrata ai danni del bambino una violenza almeno equivalente) risulterebbe anche moralmente doverosa.

La situazione immaginata da Shaw può essere riproposta per comprendere meglio in quali casi si abbia diritto di usare la forza in ambito politico, decidendo di combattere con la forza delle armi contro chi già ne fa uso.

In quali situazioni è legittimo usarla? In quali è doveroso? Cosa afferma la Costituzione italiana al riguardo?

Iniziamo dal discutere quest’ultimo punto, sul quale si sentono spesso pronunciare da fonti diverse commenti piuttosto superficiali e fuorvianti.
L’articolo 11 della Costituzione recita come segue: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
La questione da chiarire in via preliminare in questo contesto è il significato dell’espressione “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”. Una guerra condotta contro un dittatore che priva della libertà buona parte del suo popolo, o che lo massacra e che fa uso della tortura, può essere considerata come una guerra che offende la libertà di quel popolo ? O non deve essere considerata piuttosto come una guerra volta a restituire a quel popolo la sua libertà, o a consentirgli di conseguirne una che magari non ha mai avuto ? In altri termini: una guerra deve essere sempre considerata, quando non strettamente difensiva, incompatibile con il principio costituzionale esposto nell’articolo 11?

Alla luce dell’esempio che abbiamo proposto, si può ritenere che una guerra intrapresa per difendere un popolo dai massacri perpetrati nei suoi confronti da un dittatore non solo non debba essere considerata offensiva della libertà di quel popolo, ma, viceversa, debba essere ritenuta come una decisione volta ad affermarla e tutelarla, tanto che risulterebbe contraddittorio con gli stessi principi fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione non intraprendere alcuna azione in tal senso quando suddetto popolo fosse privato di quelle libertà e di quei diritti fondamentali che la stessa Costituzione dichiara di voler tutelare anche in ambito internazionale.

Il diritto costituzionale, oltre che etico-politico, a procedere in tal senso è ancor più evidente quando sia lo stesso popolo in oggetto a intraprendere una lotta politica e/o militare per affermare e tutelare i propri diritti. In questo caso, il mancato intervento in aiuto di quel popolo significherebbe di fatto l’assunzione di un comportamento complice con colui o coloro che lo privano con strumenti coercitivi, violenti e talora cruenti delle proprie libertà fondamentali, che la nostra Costituzione esplicitamente dichiara di voler tutelare e promuovere.

Naturalmente, l’esistenza in simili casi del diritto di fare una guerra non implica l’esistenza di un corrispettivo obbligo etico-politico e/o costituzionale. Per decidere di entrare in guerra contro un altro paese bisogna infatti anche ritenere che sussistano determinate condizioni politiche, sociali, economiche e militari che lascino supporre di poterla portare avanti in maniera efficace, e qualora queste condizioni non siano presenti, o quando l’intraprenderla dovesse mettere seriamente in pericolo la sicurezza nazionale, può essere opportuno e legittimo – oltre che, nell’ultimo caso, anche doveroso - non procedere in tal senso.

Per esempio: se un piccolo paese, la cui costituzione contemplasse un articolo analogo all'undicesimo della nostra, fosse in diritto d’intraprendere una guerra contro una grande potenza politica e militare, ragioni elementari di autodifesa nazionale sconsiglierebbero comunque dal dare seguito ad un simile impresa. Un diritto politico e costituzionale, pur essendo una condizione necessaria per intraprendere una guerra, non costituisce infatti di per sé una ragione sufficiente. Se cioè il democratico Lussemburgo volesse prendere posizione in maniera decisa contro le privazioni della libertà a cui è ancora soggetto il popolo cinese non sarebbe per questo motivo tenuto a dichiarare guerra alla Cina, né sarebbe ragionevole o lecito che chicchessia avanzasse pretese in tal senso.

Dunque, stando così le cose, in quali casi è “legittimo”, e in quali può risultare addirittura “giusto” fare una guerra.

In linea generale, per uno Stato di tipo liberal-democratico (per le dittature il problema non si pone, o si pone in termini molto diversi) un’azione di guerra è legittima nei seguenti tre casi:
1) Quando è considerata da un governo utile per tutelare, in maniera più o meno diretta, la propria sovranità e sicurezza nazionale;
2) Quando è considerata utile per evitare una guerra di maggiori proporzioni;
3) Quando è considerata indispensabile per evitare che un popolo sia privato delle propria libertà e sia soggetto a persecuzioni o stragi da parte del potere politico che domina sul suo territorio nazionale.

Il primo caso è evidente, ed è sancito da qualsiasi Costituzione, democratica o meno; il secondo è ragionevole, in quanto una guerra di maggiori proporzioni comporterebbe per definizione un numero maggiore di sofferenze e di morti: compete in questo caso al senso di responsabilità di ciascun governo valutarne con il massimo scrupolo la possibile efficacia, l’opportunità, i fattori ostativi e le conseguenze; il terzo costituirebbe l’effetto di una scelta coerente, e quindi “legittima”, per tutti quei paesi le cui Costituzioni si propongano di tutelare realmente la libertà e l’indipendenza degli altri propri e riconosca come universalmente validi i principi democratici.

Il passaggio dalla “legittimità” alla “doverosità” etico-politica dipende poi – nel secondo e terzo caso di legittimità - dall’esistenza di quelle condizioni economiche, sociali, politiche e militari cui si è fatto cenno e che ne consentirebbero presuntivamente una conduzione efficace, senza la presenza delle quali qualsiasi guerra si rivelerebbe non opportuna e “sbagliata” anche per le sue conseguenze interne, rispetto alle quali tornerebbero a farsi valere anche ragioni di ordine etico-politico. Nei casi in cui tali condizioni invece sussistano, ogni guerra “legittima” diventa anche una guerra “giusta”.

Di “guerre giuste” avevano già parlato – sebbene in un’accezione diversa, e tra molti altri - S. Agostino e S. Tommaso, e una simile categoria non solo non contraddice le vocazioni pacifiche dei popoli e le eventuali scelte pacifiste dei governi, ma anzi le rafforza e le rende più efficaci.

Lo stesso Gandhi, che fece del principio della non violenza l’elemento guida della sua vita e della sua azione politica, prendeva in considerazione la possibilità di addestrare e armare un popolo in vista di un eventuale conflitto, essendo consapevole che gli stessi principi della non-violenza non potevano per la loro stessa natura essere imposti né ai cittadini né ai loro governanti, e che quando questi ultimi avessero ritenuto, su mandato dei primi, la guerra come lo strumento più efficace per tutelare la libertà e la dignità del proprio popolo o dell’umanità in generale nemmeno chi avesse optato per la non violenza assoluta aveva il diritto di imporre loro un tipo di lotta di cui non erano convinti e che non avevano spontaneamente e liberamente eletto a principio guida della loro scelte e delle loro azioni.