L'amore e la solitudine

La loro relazione, in breve, nelle "prose creaturali" di Christian Bobin

   “Le bolle di sapone che questo bambino
     Si diverte a soffiar via da una cannuccia
     Sono translucidamente tutta una filosofia”.
     Alberto Caeiro


   Christian Bobin è uno scrittore e un poeta francese, nato nel 1951 in una città della Borgogna, Le Creusot, dove ha poi sempre vissuto. Un giorno ha scritto, nella pagina d’apertura di un suo romanzo (La folle Allure), la seguente dedica a un amico: “Pour (…) quelques taches d’encre (…) en souriant”, e si tratta, direi, di una dedica illuminante, perché il “sorriso” costituisce forse la tonalità predominante della sua prosa.
   Nel vasto panorama della letteratura d’ispirazione cristiana, e in particolare di quella del Novecento, Christian Bobin rappresenta una voce singolare, sia per il tono sommesso della sua scrittura sia per la peculiare spiritualità che la traspare. Il cristianesimo non è per lo più, nell’opera di Bobin, una teoria religiosa dotata di un vero e proprio impianto metafisico e teologico; non è nemmeno una dottrina mistica, sebbene l’elemento mistico ne costituisca, in una forma priva di qualsiasi enfasi, un aspetto rilevante. L’ispirazione cristiana attraversa piuttosto i suoi scritti come un “sentimento della vita” che incessantemente si depura trasfigurandosi in un lieve e fervido disegno stilistico, in una sorta di vigile prosa creaturale. 
  

   I suoi romanzi sono esenti da trame complesse e importanti, l’intreccio narrativo è ridotto ai minimi termini; mentre nei suoi libri più filosofici, dove frammenti di pensieri diversi sono tenuti insieme da uno stato d’animo predominante e unitario, protagonisti assoluti sono brevi momenti estrapolati dall’incedere quotidiano della sua vita, sono impressioni leggere, riflessioni animate dalle luci e le ombre che affiorano tra i rami o su un prato al limitare di un bosco. In ogni pagina emerge però sempre la solitudine che accompagna il pensiero nella sua accezione più piena, ovvero quando esso non coincide con un esercizio intellettualistico e privo di vita. Si tratta della solitudine che costituisce la condizione preliminare di qualsiasi incontro d’amore. 
   Perché è così difficile amare? O più precisamente: cosa rende “tanto difficile amare qualcuno senza legarlo subito alla nostra sorte”? (cfr. DM,15).  La difficoltà che ciascuno incontra nel non oltrepassare la soglia della solitudine di chi pensa di amare: “quelli che sanno amarci – scrive Bobin - ci accompagnano fin sulla soglia della nostra solitudine, e qui si fermano, senza fare un passo in più. Quelli che pretendono di proseguire oltre in nostra compagnia restano di fatto molto più indietro” (ibidem).
  Né della solitudine né dell’amore si può parlare come di due condizioni a sé stanti, perché private della loro congiunzione svaniscono entrambe in una ridda di voci e pretesti. Ciò che sempre rimane oltre le scorie dei loro fraintendimenti occasionali è anche ciò che le salda nella stessa solidale e silenziosa resistenza all’oblio, nell’indugiare dell’attenzione e del cuore su tutto quanto è cedevole, su tutto ciò che è sul punto di svanire o di perdersi.
   “Dal punto di vista dello spirito, – scrive Bobin – non c’è differenza alcuna tra sovrabbondanza e penuria: più ci addentriamo nella solitudine e più abbiamo bisogno di solitudine. Più siamo nell’amore e più manchiamo d’amore. Della solitudine non ne avremo mai abbastanza e lo stesso vale per l’amore – versante ripido della solitudine” (DM, 11).  Ma per accedere alla solitudine del puro amore bisogna abbattere l’ostacolo che sorge tra noi e la nostra vita, bisogna neutralizzare “quell’ispessimento di noi in noi stessi che consideriamo una prova di maturità, certezza d’esistere” (ivi, 37), e imparare a procedere “nella nostra vita come se non ci fossimo più, con la leggerezza del gatto tra le erbe alte, o ancora con quell’amaro sorriso dell’innamorata dinanzi al suo cuore violato e derubato” (ivi, 37-39).  E’ infatti grazie a tale leggerezza che possiamo sperare di veder nascere all’unisono un amore puro in una pura solitudine, perché questa nascita è sempre anche la condizione di ogni rinascita, ne è l’unica condizione essenziale e irrinunciabile.
  “Cosa sperare da un amore puro se non che renda pura la nostra solitudine?” (ivi, 37) – si chiede Bobin. Una volta che abbiamo rinunciato a identificarci con l’ispessimento assordante del nostro io, null’altro. I santi costituiscono la testimonianza più piena di questa possibilità, perché “conoscono una porta tra il mondo e l’amore. Se la varcano in silenzio è perché questa porta e il loro silenzio formano una cosa sola” (ivi, 53). Ma questa porta è accessibile a tutti nella misura in cui ci ricordiamo della natura precaria, fragile e illusoria dell’io, perché “ciò che chiamiamo ‘io’ e a cui teniamo tanto è della stessa natura d’un fiocco di neve che si scontra con migliaia di altri fiocchi simili in una lotta temeraria e terribilmente breve” (ibidem).
   E’ questa consapevolezza che può sospingerci a riconoscere la leggerezza silenziosa che è implicita nel significato del verbo “amare”. Questo verbo tanto comune, usato così spesso e sovente impropriamente, appartiene in realtà alla stessa famiglia del verbo “nevicare”. Se infatti ci chiedessimo: “chi è che nevica?”, la risposta sarebbe: “la neve”; e se ci domandassimo: “chi ama?”, analogamente, la risposta dovrebbe essere: “l’amore” (cfr. AU, 106-107). Bobin è, sotto questo profilo, in perfetta sintonia con molti santi cristiani (in particolare con S. Francesco) e non solo cristiani, che hanno visto nell’uomo solo un tramite dell’amore, un suo veicolo occasionale.
    Dire “ti amo” vuol dire: “c’è l’amore, là, ora. C’è solo dell’amore e io non ci sono. Io sono soltanto colui che esprime quello che c’è là, dove, momentaneamente, io non ci sono più” (ibidem).  E’ l’amore, così radicalmente inteso, che ci rivela sia la solitudine delle cose, il loro bastare a se stesse e il saper riempire “tutto il loro posto”, sia la solitudine che si manifesta in certi nostri gesti assorti, come ad esempio “l’allacciare le stringhe a un bimbo”, “leggere un libro tutto d’un fiato, con la notte intorno”; “cambiare l’acqua ai fiori” (ivi, 109). Gesti silenziosi e quasi inconsapevolmente portati, che si rispecchiano nello stupore per quel che si vede e con cui a poco a poco si può imparare a coincidere, come “l’impronta di un passero sulla neve fresca” (ibidem).
  “L’amore – scrive ancora Bobin - è questa benevolenza elementare a partire dalla quale una solitudine può parlare a un’altra solitudine e, all’occorrenza, accompagnarla nel buio” (ivi, 119-120), e “la solitudine in noi è come una lama, conficcata profondamente nella carne. Non possiamo estrarla senza ucciderci all’istante. L’amore non revoca la solitudine. La porta a compimento. Le apre tutto lo spazio per bruciare” (EN, 41), perché “l’amore non oscura ciò che ama. Non l’oscura perché non cerca di prenderlo. Lo tocca senza prenderlo. Lo lascia andare e venire” (ibidem).
  “L’amore è il miracolo di essere un giorno intesi sin nei nostri silenzi e di intendere in cambio con la stessa delicatezza” (RE, 18), l’unica possibile modulazione della relazione che intercorre tra la nascita e la morte, perché “davanti alla morte saremo come alla nascita, radicalmente privi di ogni potere. E’ a tale debolezza in noi che dovrebbe rivolgersi l’amore per non perdersi mai” (ivi, 16), per far fronte alla paura semplice e assoluta che attraversa la vita di ciascuno, alla sua origine esclusiva: la paura di non essere più amati (cfr. FA, 38), tanto che “la certezza d’essere stato amato, un giorno, una volta”, coincide per Bobin con “l’involarsi definitivo del cuore entro la luce” (DM, 19-21).
   Questo involarsi del cuore costituisce l’unica resistenza che possiamo opporre alla pesantezza dell’essere che incessantemente ci lusinga con i suoi effetti rassicuranti. Noi siamo rassicurati da ciò che è pesante, certo di sé, adulto, sicuro; siamo rassicurati dalle chiese e dalle religioni: “noi crediamo al sesso, all’economia, alla cultura e alla morte” (TB, 110). La loro pesantezza ci tiene lontani da quella leggerezza che ci consentirebbe invece di passare “da spirito a spirito” (ibidem) e che potrebbe protenderci verso l’incontro con l’altro.
   “E’ la leggerezza che ci fa orrore” (ibidem) – scrive Bobin – mentre è proprio nella leggerezza che la solitudine e l’amore si chiamano vicendevolmente per dare corso alla loro opera. E’ nella leggerezza della mancanza, nella sua freschezza sempre incipiente che la vita dell’anima può riempirsi di senso, perché “l’amore è mancanza piuttosto che pienezza. L’amore è pienezza della mancanza” (ivi, 119).
   Ma la leggerezza ci fa orrore, e così la mancanza: per questo noi siamo alla perenne ricerca delle ossa dell’essere, di riferimenti strutturanti, di fondamenti; mentre la gioia più grande, l’unica gioia senza perché, priva cioè di una ragione sufficiente riconoscibile, assomiglia piuttosto ad una carezza del vento sulla pelle, al piacere di diventare, almeno per qualche istante, ciò a cui si passa accanto: “un albero che risplende nel verde. Un viso inondato di luce” (EN, 37). Perché “questo basta per ogni giorno. Anzi, è molto. Vedere ciò che è. Essere ciò che si vede” (ibidem).

 

 

Indice delle sigle bibliografiche

AU = C. Bobin: Autoritratto, trad. it. Milano, 1999.

DM = C. Bobin: Il distacco dal mondo, trad. it. Troina (Enna), 2005.

EN = C. Bobin: Elogio del nulla, trad. it. Troina (Enna), 2002.

FA = C. Bobin: La folle Allure, Paris, 1995.

RE = C. Bobin: Resuscitare, trad. it. Milano, 2003.

TB = C. Bobin: Le tres-bas, Paris, 1992.