L'eco di un lamento che ancora risuona

  

   Ceccardo Roccatagliata Ceccardi fu un classicista sui generis: legato all’esperienza della riviera ligure accanto a Angiolo Silvio Novaro, senza essere un tipico rappresentante del mondo ligustico, prefigurò un paesaggio ‘esistenziale’ cui avrebbero in seguito attinto anche Sbarbaro e Montale. Nato a Genova il 6 gennaio del 1871, coltivò con cura il verso carducciano rivelando un certo gusto per l’imitazione dei suoi modelli lirici prediletti. Si misurò con la lezione stilistica di Leopardi e dimostrò un certo eclettismo, cercando nella letteratura anche delle gratificazioni storiche e personali. Pur trovando conforto nella tradizione la sua fu anche una poesia impegnata a manifestare il proprio dissenso con la società del suo tempo.

    Da ragazzo s’innamorò perdutamente della figlia di un rivenditore di fruste, di peperoni e di fulminanti. Poiché la fanciulla non lo corrispose, caricò una vecchia pistola e si sparò al cuore. Riuscì a salvarsi, portando però per tutta la vita le tracce delle ferite mal rimarginate. Si sposò poi, nel 1901, con Francesca Giovannetti, una ragazza di Sant’Anna a Pelago, senza essere mai pienamente accettato dalla sua famiglia. Ebbero un figlio, Tristano, che fu afflitto da persistenti malattie e fu grande causa di apprensione per entrambi i genitori.

    Nelle sue opere Ceccardo celebrò la terra apuana e trascorse su quelle montagne gran parte della sua vita, tra la val di Magra, Pontremoli, Sant’Andrea di Pelago, prima da solo e poi con la moglie e il figlio, in condizioni per lo più d’indigenza economica. Viaggiò molto per l’Italia ed ebbe una sua peculiare vocazione anarchica. A Viareggio, costituì un “manipoletto apuano” con Luigi Campolonghi, Vico Fiaschi, Enrico Pea, Lorenzo Viani, Giuseppe Ungaretti ed altri artisti e poeti che frequentavano la Versilia. Fu talora convocato dai tribunali per danneggiamenti e tumulti. Alla vigilia dell’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale fu interventista e venne invitato da Mussolini a tenere un discorso a Milano; poi a Pisa, nel 1915, pronunciò un necrologio innanzi alla salma di un caduto. L’anno dopo, al teatro Carlo Felice di Genova una sua rivisitazione del Don Chisciotte registrò un totale insuccesso. Amò la moglie Francesca, che mori prematuramente lasciandolo nello sconforto, e temette sempre di non poter garantire al figlio la vita che per lui auspicava.

    Ceccardo morì a Genova nella notte del 3 agosto del 1919, in una corsia d’ospedale. Ebbe un funerale solenne e gli vennero tributati onori altisonanti. La sua prosa non fu di minor spessore della sua produzione poetica, e questo breve scritto (Dai paesi dell’anarchia, Lucca, 2001, Pacini Fazzi editore) ne testimonia l’avvolgente incisività, lasciando trasparire la sua umanità e la sua mai sopita sete di giustizia.

    Nel libro, arricchito dalle belle illustrazioni tratte da opere di Pier Luigi Puccini, si narrano le atmosfere, i pericoli e le fatiche che accompagnarono il lavoro dei cavatori di marmo in Lunigiana e Garfagnana, e tra questi di molti anarchici spesso carcerati senza colpa e perseguitati ingiustamente. Ancora giovanissimi “erano fatti partire coi treni del mattino. L’alba si levava lentamente sulle Apuane, i monti delle cave dove forse i loro padri, i loro fratelli erano morti schiacciati da un masso rotolante per un ravaneto, o sotto lo scoppio orrendo di una mina, per guadagnarsi un tozzo di pane. La luce scendeva lentamente e gettava dei lividori sulle facce pallide, smarrite dei condannati, sul filo delle baionette”, e allora le madri o le mogli si slanciavano verso di loro, disperatamente e con le braccia aperte, “prese da un invincibile desiderio di ribaciare coloro che avevano allattato, o baciato dolcemente un giorno di nozze, figli, mariti, coloro che, come vecchi assassini, andavano a marcire le carni in una segreta”.

    Le donne, dopo la partenza di figli o mariti per remote prigioni, ritornavano quindi alle loro case, dove le porte erano state sfondate dai carabinieri o dagli alpini, e dove poi, con altre donne ed altri figli, “piangevano con lo spettro del futuro negli occhi, lo spavento della futura fame nell’anima”. In un così mesto scenario, Ceccardo non omette di ricordare la responsabilità di molti intellettuali e politici, considerando che i burattinai di quella “dolente epopea” erano gli stessi che erano soliti consacrare marmi a Silvio Pellico, Federico Confalonieri e Giuseppe Mazzini.

    I preti non si accontentavano di questo e andavano di casa in casa esortando le madri e le spose a indurre i loro figli o mariti alla resa: fate che “si arrendano nelle mani della forza, – dicevano - tutto andrà bene”. Così “molti accusati spontaneamente discesero dalle loro montagne impervie” e si recarono da un brigadiere dei carabinieri o da un sottufficiale degli alpini dicendo: “io sono il tal dei tali, io sono innocente e poi spero in quello che avete fatto dire alla mia famiglia… io sono innocente, lo ripeto, ma mi arrendo… E il tribunale rispose un giorno: voi vi siete arreso, bene, invece di quindici… dodici anni di galera!”

    Il racconto di Ceccardo si snoda tra vividi ricordi personali e immagini di terso lirismo, tanto da sembrare talora un nobile esempio di poesia in prosa. Ricorda per esempio di essere stato “sui monti delle cave sotto il folgorio del sole, che acceca riverberando sul bianco dei marmi”. Molti uomini salivano quelle montagne “tra il turbinio della polvere mossa dal vento, tra gli schianti delle mine”, per cercare di che sostenere la famiglia, che viveva in qualche casolare più a valle, “perduto tra macchie di pioppi e filari di viti”.

    Ceccardo aveva frequentato a lungo quei luoghi, aveva vissuto tra quelle cave e in quei paesaggi rocciosi, dalle tinte ciclopiche, “dinanzi all’orridezza dei ravaneti, all’audacia dei picchi svettanti nell’azzurro, o perdendosi in una bianca nube velata” che accecava col suo riverbero. Gli uomini che lì lavoravano si guadagnavano il pane a caro prezzo: la loro fragile vita, attaccata ad una fune appesa ad un semplice piuolo li faceva ai suoi occhi sembrare titani.

  Sulle alte cime era spesso necessario piazzare delle mine: si univano allora molti pali di ferro e si costruiva una specie d’impalcatura con dei pini, e poi là sopra saliva qualche dozzina d’uomini e cominciava, lento e monotono, il loro duro lavoro, accompagnato da un suono sempre eguale, da un oh! oh! triste e cadenzato. I cavatori producevano quell’accordo lamentoso all’unisono mentre, nello stesso momento, compievano un medesimo atto. L’eco di quel lamento ritmato risuonava tra i monti, facendosi ancor più dolente e fantastico. Tra cumuli di bianchi detriti che franavano come lenti torrenti di marmo per andarsi poi ad accumulare in fondo alla vallata, si facevano scendere i massi già squadrati lungo le vie delle lizze. Più in basso, li attendevano carri enormi trainati da buoi, che avrebbero poi consentito a quei blocchi di marmo di proseguire più speditamente il loro viaggio, prima verso i porti di Luni e di Marina di Carrara, poi verso destinazioni sparse nel mondo, per dare corpo a illustri monumenti o a semplici tombe.

    I grandi piuoli che venivano piantati per le ripide vie servivano a fissarvi le canape della lizza. Questa era una specie di slitta di legno su cui venivano fatti discendere i marmi. I lizzatori, posti sul davanti, disponevano, sotto il blocco in discesa, dei travicelli di legno, che servivano ad attutirne lo sfregamento contro il fondo scabro della via, agevolando così il loro viaggio. Ma “quanto pericolo! La canape spesse volte si spezza e il masso enorme – se gli uomini non son pronti a fuggire, rotola loro addosso e si vendica, uccidendoli: uccidendo essi piccoletti, che con piccoletti mezzi tentarono di portarlo via dal suo santo luogo natale”.

    Quegli uomini, che avevano passato la settimana ad arrampicarsi tra le rocce rischiando di rimanere sfracellati, al sabato sera poi si davano al bere, e qualche volta s’ubriacavano. Il bere costituiva forse l’unico modo loro concesso per trovare un qualche momentaneo ristoro da una vita aspra, che sondava ogni giorno l’intraprendenza della morte. Avevano bisogno di rinvigorirsi, “di obliare fosse pure per due o tre ore la giovinezza sciupata al sole, la carne arsa, gli occhi sanguinanti pei bianchi riverberi”; avevano bisogno “di dimenticare che domani forse come il fratello, come lo zio un masso li sfracellerà e che avranno venduto la loro vita o almeno saranno ridotti impotenti per pochi centesimi; due, due e cinquanta, tre lire quotidiane che bastavano appena a sostener la famiglia”.

    Sulle apuane avevano trovato rifugio i primi cristiani, quei “discepoli di Paolo e di Pietro, condannati dai Cesari a scavar marmi per tutta la vita, rei d’un sogno. Roma era potente, le aquile aleggiavano sul Reno e sulle sponde britanne, i marmi scavati andavano ad adornare i triclini dei pretori e ortoli dell’etere”; ma i cavatori qui morirono ignoti, “appena lasciando sulle rocce un timido sogno delle loro aspirazioni e del loro martirio”. Certo non potevano immaginare che il sogno luminoso di Cristo si sarebbe tanto diffuso, e che sarebbe stato anche abilmente sfruttato, in tutto il mondo, facendo spesso sfoggio di quei marmi strappati alle montagne al prezzo di molte vite e tragedie consegnate presto all’oblio.

 

Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Dai paesi dell’anarchia; illustrazioni di Pier Luigi Puccini, Lucca, 2001, Maria Pacini Fazi editore.