52 ritratti d'autore in 52 "lettere scontrose"

    Benedetto Croce sosteneva che quando si perde la capacità d’indignarsi tutto è finito. Quest’affermazione è particolarmente appropriata per i giornalisti o gli scrittori, e per gli intellettuali in genere. “Vittima di ogni attualità possibile”, come si definì nei suoi giorni estremi, Giovanni Arpino considerò la contemporaneità il sale della propria vita, ma seppe sempre esercitare con maestria l’arte sottile di manifestare la sua indignazione rispetto a quanto accadeva intorno a lui in modo argomentato, pungente, gentile e intelligente. Negli anni del boom economico, quando tutto, o quasi, sembrava filare per il meglio e un certo diffuso ottimismo veleggiava per le strade, le spiagge e gli stadi di calcio, fu una voce spesso dissonante, poco incline ad assecondare acriticamente mode culturali o di costume.  

   In queste Lettere scontrose, (e una risposta, quella di Totò) si dimostra in particolare un grande ritrattista, in grado di restituirci gran parte della sapidità di quegli anni, ovvero del biennio 1964-1965, quando queste lettere furono scritte su Tempo, il settimanale diretto da Arturo Tofanelli, rivelando una volta di più, oltre a una certa spigolosità del proprio carattere, anche la sua finezza psicologica e la grande qualità letteraria della sua prosa.

   Arpino scrive a vari protagonisti di quegli anni, attivi in campi assai diversi: dalla politica, al cinema e al calcio. Tra le lettere inviate ai politici, quella destinata a Ugo La Malfa è forse una delle più efficaci e utili per comprendere anche le presenti circostanze patrie, che hanno più di qualche punto in comune con quelle di allora. Arpino si sofferma infatti sulle “congreghe d’inquisitori” che si stavano formando in Italia durante gli anni 60 e che prima o poi avrebbero deciso di “bruciare gli intelligenti rimasti, come mostri pericolosi, asociali, contagiosi”. Forse l’intelligenza stava “diventando un vizio, una mostruosa verruca, che l’uomo, per essere felice e candido e leggero e utile a se stesso”, doveva “sapersi strappare dalle carni” e forse l’avvenire del mondo non dipendeva più “dall’intelligenza, ma da una pace idiota e infantile del cervello”.

 

   La sorte riservata ai pochi superstiti intellettualmente onesti non sembrava comunque migliore di quella dei discorsi pubblici di Ugo La Malfa, cui tutti porgevano orecchio con estrema attenzione quando leggeva una relazione in Parlamento, lasciando poi che le sue parole scorressero senza lasciare traccia e continuando a ignorarne tranquillamente il significato e le implicazioni. La Malfa si era infatti sempre battuto per disciplinare le sfere di responsabilità tra potere politico e pubblica amministrazione, ma in Italia non si nutriva in realtà “la minima intenzione di disciplinare, di porre ordine, di metter in luce, di chiarire le responsabilità, di separarle, di controllarle”. Nessuno, dal più umile suddito al più titolato governante, aveva “motivo per cacciarsi in un simile ginepraio”.

    Ugo la Malfa non è certo l’unico politico di cui sembra essersi da allora perso lo stampo e Arpino con le sue lettere si rivolse a diversi “cavalli di razza” che potrebbero oggi essere agevolmente rimpianti. Per fare un altro esempio, sono diversi i temi su cui avrebbe voluto fare qualche domanda ad Amintore Fanfani, a partire dalla parità delle donne o dalla situazione nel Vietnam, fino alla moda del topless o alle “solite centomila e più aule che a ogni ottobre mancano per gli scolari italiani”, ma in ogni caso gli riconosceva il merito di aver dato vita al centrosinistra in Italia: “i partiti italiani sono stati gli unici al mondo a tentare questo sperimento non avendo alle spalle l’appoggio unitario dei sindacati. Una audacia che non ebbe il Roosevelt del New deal, né i laburisti inglesi, né gli svedesi.’”.

   Sono molti altri i politici destinatari delle missive di Arpino, da Aldo Moro a Giuseppe Saragat, da Mariano Rumor a Giovanni Malagodi, tutti contributi importanti per comprendere lo spessore umano, culturale e politico dei personaggi in questione e il loro rapporto col loro tempo. Ma Arpino è stato professionalmente attivo soprattutto come giornalista sportivo e sono forse quelli destinati al mondo del calcio i suoi ritratti più belli.  

   Nel contesto dei campi dove si tengono i nostrani spettacoli pedatori regna, secondo Gianni Brera - che Arpino considerava il più fine dei nostri critici calcistici - un’antica disinvoltura morale. Questa circostanza è probabilmente collegata con un’altra non meno caratteristica del nostro calcio e del nostro paese, ovvero con il fatto che in Italia si tendeva, così come ancora si tende, “a confondere lo sport con il successo comunque arraffato”. In un simile scenario, per certi versi desolante, non mancavano tuttavia personaggi di rilievo sotto il profilo psicologico e morale, fino ad assumere un certo interesse letterario.

   Uno di questi è sicuramente Ezio Pascutti, l’ex attaccante del Bologna dello scudetto: Pascutti viene descritto come “un uomo mite, gentile, persino gracile, con un viso non certo da atleta, ma da persona costretta a trascorrere molto tempo chiusa in ufficio”. Era dotato di un “fisico assolutamente normale” ed era pronto a buttarsi “nelle aree di rigore avversarie rischiando tibie e caviglie come se avesse quattordici anni e il pallone fosse ancora di stracci.” Aveva ogni tanto “scatti d’irascibilità, mai di violenza”, e ogni spettatore avrebbe dovuto essergli grato perché costituiva un valido antidoto alle mezz’ore di noia che accompagnavano spesso i rituali calcistici domenicali. In campo Pascutti c’era o non c’era: a volte non esisteva, era come estraneo, e se in giornata negativa non cercava di mascherarsi. Non agitava “i glutei in andirivieni affannosi”, non suppliva alla tecnica con la buona volontà. Rimaneva, in sostanza, sempre fedele a se stesso, che era probabilmente il suo tratto più significativo, di cui conserva ancora memoria chi lo ha visto giocare.

    Omar Sivori è stato, a fine carriera, per certi versi l’opposto di Pascutti. Se nell’era juventina si era manifestato come un riottoso funambolo, capace di cattiverie nascoste, ma anche di far sparire il pallone tra le serpentine di quei calzettoni arrotolati sulle caviglie beffando intere difese, dopo averlo visto a lungo giocare nelle file della Juventus, una volta passato al Napoli, Arpino rimase colpito dal suo comportamento in campo. L’estroso campione era diventato capace di giocare per la squadra, d’immolare la sua classe all’obiettivo di tutti i compagni. Vedere giocare quel Sivori era roba per fini intenditori. Il vecchio incantatore di difensori disorientati fu costretto per la prima volta a lavorare dì orgoglio e di fiuto, di astuzie e d’esperienza più che di forza e agilità, e poiché fu una sua libera scelta coraggiosa, essa rivela l’umiltà che sta sempre più o meno nascosta in ogni grande campione.

   Quella era anche l’epoca anche della grande Inter di Helenio Herrera. Grazie a lui, al mago per antonomasia, Milano e i milanesi incominciarono a soffrire di “attacchi d’interite”. Herrera si rivelò “un manager d’eccellenza”, “il Kutuzov delle tattiche calcistiche”, anche se la sua Inter “cosi accasarmata” non piaceva troppo ad Arpino, il quale però avrebbe visto bene Herrera, con i suoi “urli e urlacci”, come “un ottimo istruttore per il materiale umano dei vari ministeri”.

   Se Herrera fu il mago, Edmondo Fabbri fu l’anti-mago, il commissario perdente per eccellenza, che parlava e dottorava come fosse Napoleone dopo Austerlitz anche per commentare la sconfitta con la Corea; mentre Concetto Lo Bello, ovvero “il tiranno di Siracusa”, “lo Scelba del fischietto”, in quegli stessi anni mostrava il suo impareggiabile stile arbitrale, la sua corsa flemmatica, il suo passo, come Nicolò Carosio ebbe a definirlo, “spigliato ed elastico”, il suo tipico modo di troneggiare tra i giocatori pur dimostrandosi, per sovrana concessione, talora accondiscendente e comprensivo, persino mite nei gesti, come quando aveva qualcosa da dire a Rivera. Ecco, allora lo faceva “con garbo, tranquillamente, con gesticolare pacato”, e se Rivera aveva commesso un fallo, Lo Bello, dopo averlo punito, lo consolava “con un gesto rassegnato delle braccia”.

   In queste Lettere scontrose non meno interessanti e vividi sono i ritratti dei grandi cantanti, attori e registi che in quegli anni furoreggiavano in Italia e nel mondo. Tra i cantanti, bastano ad Arpino pochi tratti per disegnare i Beatles con essenziale incisività: la loro singolare attrattiva consisteva nella loro “innocenza interpretativa, fatta di gorgheggi, note filate o sillabate con effetti nuovi, una sorta di cantare-sorridendo, di cantare-ammiccando, di cantare-sospirando ma con malizia, che è frutto di istinto e ingegno”. Si trattava a tutti gli effetti di qualcosa di molto diverso da quanto producevano i loro antagonisti di allora, i Rolling Stones, che “si affidavano all’urlo protestatario, caotico, inventando una sorta di anarchia premusicale”.

   Per quanto riguarda invece il cinema, ecco invece come viene descritta la personalità artistica di Federico Fellini nella lettera a lui rivolta: “non c’è persona che, avendola conosciuta, non parli di lei come di uno stregone meraviglioso, un incantatore, capace di ipnotizzare addirittura i maghi di professione” e di “rendere tutto più umano, più semplice, e nello stesso più occulto, più profondo”. In Otto e mezzo, Fellini è infatti riuscito a confondere “piccoli e appiccicaticci sacerdoti di un proustianesimo sospiroso” per ricondurre “i temi fondamentali della memoria alle loro ancore principali: il prorompente e casto turbarsi dei sensi; la dolcezza del ricordo familiare, favoloso anche se povero; la solitudine del giovinetto che deve maturare alla vita, e cioè all’ambiguità, alla confusione, al dolore delle scelte”.

   Tra le lettere destinate ad attori, una delle meglio riuscite è quella inviata per via immaginaria ad Alberto Sordi, che aveva già allora, a metà degli anni 60, definito “all’estremo il tipo dell’italiano infingardo, bugiardo, egoista anche se buono, devoto alla mamma e alle polpette casalinghe, feroce coi deboli e sottomesso ai potenti, untuoso e perditempo, avido, millantatore, con pretese di eleganza ma che gira in canottiera, sicuro del proprio fascino mediterraneo ma assiduamente concentrato sul problema delle diecimila lire mancanti”. Più studiava se stesso, meglio riusciva “a esprimersi soldato, prete, mantenuto, marito fasullo, guardia civica, ubriacone, pilota di Jaguar, brigadiere dei carabinieri”. Sordi era infatti un maestro nell’uso dei particolari: “il modo di far scattare l’accendino, d’infilarsi i guanti, di mettere gli occhiali, di tirar su col naso, di far ondeggiare la giacchetta a spacchi, sono infiniti tocchi d’autore, in un’antologia di personaggi che ci rispecchia tutti”.

   Nonostante l’ammirazione di Arpino per Charlot, il giudizio sulla autobiografia di Charlie Chaplin è severo e implacabile. Con essa Chaplin sembra voler “sbalordire i nipoti e ferrarli adeguatamente alla vita, raccontandogli storie di saggezza e di audacia e riponendo con cura sul fondo della memoria l’autentica ispirazione da cui scaturiscono tanti fatti”. E la conclusione cui giunge nella sua lettera è perentoria: “all’amore che noi le portiamo da anni, signor Chaplin, questo libro non aggiunge nulla, semmai, per qualche verso scalfisce, riduce l’impeto, l’ingenuità. A lettura finita, una persona di cuore candido ha il diritto di domandarsi: ma perché l’ha scritta?”

   Arpino non nasconde poi la sua predilezione per Tati, che trova simpatico anche perché la sua creazione cinematografica, Monsieur Hulot, rivela subito che non diventerà mai un monumento, né di saggezza, né di presunzione né di ricchezza: “la somma dei nostri difetti con un immenso candore ha dato Hulot, quest’angelo senz’aureola. Che è buono, mentre noi non lo siamo affatto. Lui inciampa per aiutare vecchine ad attraversare la strada, noi giriamo avvelenati e inconsapevoli della nostra cattiveria. Hulot è il nostro fratello non riuscito, pecora nera negli affari e nel saper vivere, ma il più dolce componente, il più meritevole della nostra famiglia”.

   La lettera a Totò, che fu “pater e magister di una grossa fetta della comicità italiana”, è infine un aperto riconoscimento e un attestato di ammirazione: senza di lui “molti non sarebbero nati, moltissimi non avrebbero avuto spunto per campare. La sua assurdità, il suo essere pazzariello insieme triste e cosciente, insieme folle e marionetta, hanno costituito pane e sale per tre generazioni, non solo di spettatori, ma di comici. Una pillola esilarante da trangugiare nel grigio del vivere quotidiano”. Totò ha colto “un italiano che non ha bisogno di essere trafitto nei suoi difetti più vieti. Il suo italiano è figlio della burocrazia, parla un linguaggio da ufficio, è inserito in un sistema giuridico ben preciso”, fatto di uscieri, corti d’assise, carabinieri e controllori di vagoni notte, avvocati e portinai. Ecco perché di fronte a certi film impegnati, che fingono arte con un certo sussiego, noi possiamo sognare lui, Totò, noi sogniamo lui che “contraffà l’eroe, il maliardo, il vincitore, insomma il fesso”.

   E Totò gli rispose, con toni grati e persino commossi, scusandosi perché gli era difficile esprimere a parole quello che provava e ringraziandolo per gli elogi fatti alla sua modesta arte: “è un onore per me il sapere – scrisse - che essa è stata apprezzata (più di quanto io potessi sperare o immaginare) da un uomo di alta cultura come lei, letterato illustre e romanziere finissimo”.

 

Giovanni Arpino, Lettere scontrose, 52 lettere e una risposta, Minimum fax