Dalla certezza d'essere alla sua estinzione e ritorno

   La traduzione in italiano dei Quaderni di tutto e nulla di Macedonio Fernández (per Prospero editore, a cura di Irina Bajini) è di buon auspicio: consente infatti di sperare che uno degli scrittori e dei pensatori più originali dell’America latina, maestro e amico di Jorge Luis Borges, sia finalmente conosciuto anche in Italia come in molti altri paesi del mondo e come da troppo tempo merita.

   Le traduzioni di opere letterarie di Macedonio in Italia sono state infatti fino ad oggi piuttosto rare: la più recente, presso l’editore Castelvecchi (dopo la prima e storica per il Melangolo, del 1992), è quella del Museo del Romanzo della Eterna; ma bisogna andare indietro con gli anni per trovarne una di qualche racconto: una breve raccolta fu pubblicata nella Biblioteca blu di Franco Maria Ricci, a cura di Marcelo Ravoni, col titolo La materia del Nulla.

 

  Ma se Macedonio era già noto al pubblico italiano per qualche sua opera letteraria, la sua produzione filosofica è da noi pressoché ignota, sebbene in Argentina, con l’editore Corregidor, consti di diversi volumi straordinariamente ricchi di spunti e riflessioni originali. Macedonio è infatti un pensatore sorprendente, che oltre ad essere, come ebbe a definirlo Borges, un Buddha argentino del XIX secolo, ha molteplici e spiccate analogie con grandi filosofi di epoche diverse, a iniziare da Hume e Berkeley, fino a Schopenhauer e Spencer, con il quale ebbe anche un prolungato scambio epistolare.

   Lo stesso Borges riferisce che, pur avendo nel corso della sua vita conosciuto molte persone famose, nessuna lo impressionò mai come Macedonio, che considerò sempre un maestro, al punto di ritenere la sua frequentazione personale la più importante sulla formazione del proprio universo letterario. Da un suo splendido ritratto sappiamo che “Macedonio cercava di nascondere, non di esibire, la sua straordinaria intelligenza; parlava come ai margini del dialogo, e tuttavia ne era il centro. Preferiva il tono interrogativo, il tono di modesta domanda, all’affermazione cattedratica. Non pontificava mai; la sua eloquenza era fatta di poche parole e persino di frasi tronche”.  

   Ogni pensiero di Macedonio tende a suscitare riflessioni supplementari e spesso spaesanti, qualsiasi tema affronti. Amare, per esempio, è per lui “trovare, in un altro, più grazia nel vivere che in noi stessi” e “due persone si amano davvero se capita loro spesso di non sapere chi dei due ha male a un ginocchio o ha sete o è stanco”. Riteneva che la cultura e la scuola procedessero a gonfie vele, dato che ormai non si potevano più trovare persone “ignoranti senza diploma” e che le rivoluzioni, sempre attuali in America latina, fossero prevedibili, dato che “l’umanità ha bisogno di uno spettacolo ogni cinquant’anni: “a quel punto un aristocratico transfuga – per dissapori interni alla sua classe - si fa prendere la mano e diventa il capo della plebe”. Per quanto riguarda invece alcuni poeti a lui contemporanei, la loro preoccupazione principale, in grado di provocare repentine tristezze, gli sembrava a volte quella di pubblicare libri che fossero da tutti compresi.

     L’aspetto umoristico e paradossale di molte osservazioni non deve tuttavia ingannare: Macedonio è un filosofo serissimo, come possono essere solo le persone dotate di un autentico senso dell’umorismo. A volte, come quando riflette sulle procedure scientifiche della nostra conoscenza, ricorda alcune considerazioni di Ludwig Wittgenstein sulla necessaria perspicuità che deve avere una prova in qualsiasi processo dimostrativo: per Macedonio, infatti, “non c’è dimostrazione: c’è scomposizione di tutti i momenti di formazione di un’immagine”.

   Non meno interessanti sono alcune sue allusioni alla memoria e agli ingombri dell’intelligenza, che sembrano integrazioni di Bergson: “le cose – scrive infatti Macedonio - hanno una costante: ingombrare, e una momentanea: servire. Forse per la conoscenza o la memoria vale lo stesso”. Altre volte, fa pensare alla nostalgia dell’Uno di cui parla Plotino, come per esempio quando sostiene che “non ci sbaglieremo a dire che l’intenzione della Vita non sarà la vita individuale, ma la crescita di un singolo individuo che assorbe tutto il moto e la materia del Cosmo? Andrebbe cambiata dunque tutta la teleologia: né Vita né Sentimento sarebbero la sua finalità, ma l’impluralità, il Tutto in una sola figura individuata”. Addirittura, Macedonio riferisce che gli “è sempre capitato di pensare che la Vita potesse essere un sistema molto colorato, ma senza alcuna finalità; poi - scrive - ho provvisoriamente pensato che la sua aspirazione potesse essere un monoindividuo immortale, ma ogni supposizione sembra smentita da un’infinità di fatti”.

   Questa tesi è però avvalorata da una considerazione cruciale: “attribuiamo, ipostatizziamo un sentire nei corpi che si esprimono come noi. Ma siccome non siamo nemmeno i nostri corpi, quello che c’è è che proiettiamo un corpo nella nostra psiche e proiettiamo una psiche negli altri corpi. Che tutto quanto accade nella nostra psiche è perché si verifica un evento nel corpo che proiettiamo, non vuol dire che la nostra psiche sta in quel corpo”. Per questo potremmo anelare a coglierci come riflessi di un monoindividuo coscienziale, in un uno-tutto eternamente presente. Sotto questo profilo, la sua mistica potrebbe incentrarsi dunque su un sentire privo di futuro, su un sentire cui è stata sottratta ogni proiezione avvenire, su quell’eterno presente che era stato già concepito da diversi grandi mistici del passato e non verrebbe meno nella mono-coscienza dell’Uno-Tutto.

  La sua spiccata attenzione per il mondo animale e vegetale rende poi Macedonio ulteriormente attuale: pensa che la cosa più triste del mondo sia “un cane senza uomo. E lo spettacolo più gioioso che si conosca sulla terra: un cane con l’uomo”; è convinto che gli alberi sentano, e che noi pensiamo per colmare un’imperfezione vegetativa: “la pianta non ha bisogno di pensare per avere un sistema viscerale perfetto. Il piacere dell’acqua è un segno che la pianta esiste e sente. Ci dev’essere pure un sorriso al ricevere la pioggia o l’irrigazione dopo una siccità. Poiché credo ci sia un sentire nell’albero, poco importa che ci sia un pensiero, che è un gioco”.

  Sulla morte, poi, Macedonio pensa che non accada mai completamente, che sia anch’essa in qualche modo imperfetta, perché “non tutta la morte accade o è quanto accade alla fine della vita, né in lei è tutto morte. È giunta da prima e non accade mai del tutto”. Forse la morte uccide “chi volentieri, ma senza preferirlo, muore: chi mostra di trovare nel morire lo stesso piacere che nell’addormentarsi, sgonfia di tutta la sua eternità la morte. La credenza nell’immortalità è molto poco geniale in confronto a ciò”.

    Oggi viviamo in un’epoca molto pericolosa, e forse siamo sull’orlo di un baratro, ma non si può escludere che ve ne siano già state, perché potrebbero essere esistiti “individui che volevano la morte della loro specie” e questi potrebbero essere scomparsi senza che nessuno ne abbia saputo mai nulla. La voglia di comandare, che è all’origine di molti mali e spesso anche di quel desiderio d’estinzione, non è del resto mai venuta meno: essa “indica inferiorità e l’opposto della voglia di convincere, ce l’ha di più chi grugnisce all’obbedire”.

   Come la mistica e la metafisica, l’arte può aitarci a non cadere preda di simili pulsioni e a cogliere nel contempo la peculiarità della condizione umana. Sono due le emozioni su cui l’Arte dovrebbe lavorare: “quella di Certezza dell’Esistenza e quella di Nullità della Certezza dell’esistenza. Dovrebbe giocare con la certezza di esistenza. L’arte si proporrebbe la stessa cosa della Metafisica; sarebbe un modo diverso di provocare lo stato mistico, che è enucleazione della nozione di essere, dell’identità personale e della continuità storico-personale”.

   Anche i personaggi dei romanzi, i personaggi in cui ci siamo a lungo identificati e attraverso i quali abbiamo sofferto e sognato, costituiscono in fondo un prezioso viatico verso quest’apprendistato fondamentale: essi servono “per diluire la nozione di essere del lettore”, ci aiutano a porre tra parentesi e sospendere la nostra stessa certezza d’essere, fino a renderci a nostra volta personaggi di un Museo senza tempo in cui nulla è mortale. Potremmo così scoprirci come residui di un sogno che ha avuto un momento illusorio apicale, quello in cui ci è parso di avere persino un corpo, per poi tornare a riposarci e a danzare nello spazio vago e indefinito dove si conserva ogni soffio dello spirito, ogni perenne fantasma o fantasia dell’essere.