E in questo istante tu dormi e sorridi

 

   Lo sdegno che da ragazzo Lapo provava per l'ingiustizia gli era rimasto nel sangue, come il gusto di ricordare. Anche nella capanna assediata dalla furia di un temporale il passato lasciava la sua orma. Gli uomini scompaiono tutti, pensava, chi da gigante e chi da nano, sotto il cielo stellato o dentro un abisso di silenzio, scompaiono lasciando una debole memoria o una traccia profonda.

    Quando si fu estinta in lui ogni forma d'intolleranza giovanile, quella "che divideva gli uomini in 'compagni' e 'nemici', che rendeva ciechi di fronte alle ragioni dell'altro, al mistero del suo essere uomo", il professor Lapo Tusci, docente di materia letterarie, si recava spesso sul passo di Dante, sul colle per cui i pisan veder Lucca non ponno: gli piaceva pensare che da lì fosse passato il sommo poeta e vi si tratteneva a lasciar affiorare i ricordi della sua vita. Di quando bambino, in soffitta, osservava il pulviscolo danzare in un fascio di luce mentre spiava le formiche, o di quella volta che schiacciò un ragno facendone uscire un liquido giallognolo. Da quella soffitta "il mondo gli pareva piccolo e buffo" e mentre sognava di recitarvi un ruolo da protagonista si sentiva già un suo spettatore appartato.

     Il professor Lapo Tusci è uno dei personaggi de L'orma di Orlando, una silloge di racconti che compongono, insieme al romanzo Santa Maria dei colli e alla memoria (introduttiva al volume e da cui è tratto il titolo, L'orma dei passi perduti) questo nuovo libro di Paolo Buchignani, autore di alcuni bei saggi sulla storia del Novecento e in particolare su quella del fascismo, già docente all'Università di Reggio Calabria e da poco in pensione.

     I luoghi di cui si parla in questo libro sono quelli dove l'autore ha trascorso la sua vita, fin da bambino: la campagna lucchese, in particolare quella sull'argine occidentale del Serchio, e la Fregionaia, dove nei pressi di un antico monastero, poi trasformato in manicomio nel XVIII secolo, pare abbiano trovato rifugio molti eretici e che si sia fermato un giorno anche Lutero.

    In quell'ospedale psichiatrico poi lavorò e scrisse per gran parte della sua vita Mario Tobino. L'autore ebbe a conoscerlo quand'era ragazzo e ne traccia un breve ricordo nella parte iniziale del libro. Dopo aver letto il suo saggio su Marcello Gallian, ricavato dalla tesi di laurea che aveva discusso con il professor Silvio Guarnieri, di cui Tobino era amico dai tempi di Solaria e delle Giubbe rosse, questi, afferratolo per un braccio, lo esortò a fargli leggere qualcosa di narrativa o di poesia, che con quella faccia e quegli occhi non poteva non aver scritto cose del genere. Il giovanotto, che di Tobino conosceva tutta l'opera fino ad allora pubblicata, con balbettante emozione gli portò allora il primo dei racconti che qui si ristampano. Il giorno successivo ricevette una telefonata e fu invitato all'ospedale di Maggiano, dove venne ricevuto nella cameretta in cui Tobino scriveva, alla presenza della sua "Olivetti" e di una copia della Commedia dantesca: "il racconto è bello, – gli disse – è gentile. È scritto in un buon italiano. L'ho letto d'un fiato e questo è buon segno. Continua! Attendo il prossimo!".

    Ma Buchignani strinse amicizia sincera anche con Romano Bilenchi, che aveva conosciuto Marcello Gallian a Roma, nei primi anni 30: "Avevo vent'anni, Marcello qualcuno di più – gli raccontò Bilenchi -. Noi ragazzi si credeva in Mussolini, lo si amava come un padre; per lui mi sarei fatto ammazzare. Si pensava che ci guidasse alla rivoluzione contro la borghesia. Poi mi accorsi della fregatura e diventai comunista, anche se sono rimasto convinto che il duce, che era stato socialista, apprezzava le nostre idee, e, forse, la rivoluzione voleva farla davvero, ma i gerarchi imborghesiti e i poteri forti di allora gliel'hanno impedito".

    Di Romano Bilenchi era amico anche Geno Pampaloni, che così ebbe modo di leggere alcuni racconti presenti in questo volume. Pampaloni invitò il giovane autore nel suo studio a Firenze, in un palazzo antico di via della Cernaia, e lì lo accolse in vestaglia da camera e ciabatte. Dopo averlo fatto accomodare gli disse che i racconti erano belli, che Romano non si era sbagliato: erano belli "anche perché difformi rispetto a certa letteratura commerciale oggi di moda". Poi gli consigliò di leggere gli ebrei, Singer in particolare.

    In effetti, qualche eco della prosa scarna, vibrante e asciutta di Singer risuona a tratti in certi momenti dell'opera narrativa di Buchignani. Come quando, nel romanzo Santa Maria dei colli, si parla della Rossa, che accostava avida le labbra carnose al pozzo "e se c'era un uomo, qualcuno che le piaceva, lo fissava con occhi voraci, invitanti"; oppure quando si racconta di alcune figure che sembrano uscite da un sogno infantile, come quella d'un vecchio con un cappello scuro, "con bianche mani come quelle dei signori" e una pietra azzurra che sfolgorava all'anulare. Oppure, in un racconto, di Maciste, che era rimasto solo al mondo perché i tedeschi gli avevano trucidato tutta la famiglia e lui trascorse la vita "chiuso nel suo doloroso silenzio, a rimuginare il suo odio e la sua vendetta".

    Emblematico dello spirito che attraversa tutta l'opera è l'ultimo paragrafo di   Santa Maria dei colli: il romanzo si chiude infatti con la morte della nonna Esterina, che negli ultimi giorni di vita si alzava sospirando e ritta davanti al crocefisso "si faceva, lenta e solenne, il segno della croce". Nella sua camera dorme ormai la figlia del narratore. All'alba di un nuovo giorno un colpo di vento spalanca la finestra. La pioggia è da poco cessata. Affacciato al davanzale, nell'aria fresca, lui sente il profumo dell'erba recisa, mentre la notte s'imbianca e le stelle iniziano a illanguidire. Sua figlia dorme e sorride, fra poco si sveglierà e lui potrà sentire di nuovo la sua voce.

 

Paolo Buchignani, L'orma dei passi perduti, Tralerighe editore.