In un punto indefinito del giardino

 

  Ci sono libri che sondano confini e talora non sono soltanto dei libri, ma assomigliano a implicite iniziazioni, a viatici spirituali. Consegnano al lettore la disponibilità di uno sguardo che era rimasto sospeso a mezz’aria, di uno sguardo prima non avvertito, ma ora in grado di condurlo per mano verso quella linea di confine in cui la vita e la morte si sondano e s’illuminano a vicenda. 

Succede che un giorno un amico faccia notare all’autrice una leggera zoppia, che poi si rivela essere il primo segnale di una malattia grave. Questa irrompe nella vita e diviene l’occasione per scrivere un libro, uno di questi libri che non sono soltanto dei libri, quasi l’espediente tragico escogitato dalla natura o dal destino per indurre una trasfigurazione spirituale.

 

Al giardino ancora non l’ho detto - questo è il titolo del libro di Pia Pera appena uscito nelle librerie - racconta di questo destino. Non è facile capire quanto l'autrice possa aver percepito, mentre lo scriveva, il dono che stava facendo ai suoi lettori. Forse una simile consapevolezza è proprio impossibile, perché ostacolerebbe come un'invasiva "seconda intenzione" il processo creativo. Certo pare impossibile che i lettori possano non accorgersi che proprio di un dono si tratta, e di uno che introduce a un passaggio essenziale.

Come si può non temere la morte? Come sopportare il dolore che accerchia ed opprime, quando questo può assumere dimensioni chesembrano sproporzionate alle nostre forze? Il dono non offre risposte: soltanto suggerisce di far caso alle cose più semplici, alla reciprocità di un sorriso, al mutuo riconoscersi delle persone in ogni cosa viva, perché si è soltanto quel che rimane, e nient’altro, nel nostro sguardo, la fragranza che esso preserva e diffonde.

Può non essere poco, come questa narrazione poetica dimostra con la sua intonazione schietta, le sue esitazioni e i suoi ripiegamenti, con i suoi momenti di buio alternati a quelli di una luce radente e talora sorprendentemente serena.

Tutto quel che è reale lo s’intravede da uno “sparire”, da un “abbandonare”. Nessun io è davvero reale, nessuna presunta personalità. S’incomincia appena a diventare reali solo quando s’intraprende un processo di dissoluzione, quello svuotamento che ci riconduce “al Mu, al vuoto originario”, perché di questo ognuno è solo un ultimo specchio. Esso si manifesta nel talento “di cogliere la bellezza del mondo”, nel farsi rovina, nel riconoscersi un disegno del vento, nella “limpidezza di essere soli al mondo”.

Ma in questo libro c’è anche un giardino, che non si vorrebbe invece lasciare solo. O forse, ancora meglio, questo libro è a suo modo un giardino interiore, la sua disposizione e la sua cura man mano che viene meno, per mancanza di forze, la capacità di curare quello reale, che fiorisce a ogni Primavera e poi dà i suoi frutti.

Se il giardino “è un posto ideale per morire” - come dice Derek Jarman – in esso si compiono anche “cicli di resurrezione”. In un simile luogo di rinascita  può tuttavia venire in mente che la malattia sia iniziata per una propria colpa e questo sospetto può istallarsi nell’anima ostinatamente, fino a convincere che ci sia molto da riparare, molto da perdonare. È vero, per tutti; ma questa idea ostinata riesce a dare i suoi frutti solo quando si sublima e da pietra che ottunde si trasforma in un gas leggero: lo spirito del giardino riprende allora il sopravvento e il fatto stesso di accorgersi di “amare”, di saper amare in un modo semplice e diretto, ben oltre i dettami scettici e refrattari della ragione, sembra restituire anche a questa colpa presunta il giusto spazio, farle ritrovare la sua condizione ipotetica e mitigarne la pertinacia. Qualcosa allora rimane, come un perdono, su tutte le cose, che può incominciare solo da quello di sé, del proprio io in via di dissoluzione, sempre più spazioso sebbene costretto in un corpo che tende all’immobilità.

Può così capitare di assomigliare ogni giorno di più alle piante di cui si è sempre avuto cura, di divenire ogni giorno più simili a loro, più immobili e consapevoli di quanto poco si desiderasse muoversi prima. E tuttavia non rinnegare le corse e le nuotate, le passeggiate e le occasioni per incontrarsi, anzi rimpiangerle con gratitudine, per sentire ancor meglio la vita e amarla nel dilatarsi del proprio spazio interiore, attraverso le circostanze meno sopportabili di ogni giorno. Nello spazio interiore è infatti possibile attraversare “il dato fisico quasi fosse incorporeo”, trovare una forma d’eternità, andare oltre il corpo che ci abbandona.

Sebbene in questo libro, nelle sue pagine più meditative, il tema dell'eternità traspaia solo a tratti, esso vi evoca alcuni riferimenti salienti: qui infatti l’insegnamento di Socrate pare saldarsi con quello di Buddha e di Cristo. Se filosofare è abituarsi a morire, allora questo è un libro filosofico, perché è anche un dialogo propedeutico con la morte; ma poiché esso racconta del progressivo svuotamento dell’io, è anche un testo di spiritualità buddista, che non marginalmente condivide con l’autrice quest'attenzione per il giardino, il gusto di saper riconoscere un’armonia tra ordine e disordine, tra il caso, la spontaneità della natura, e la disposizione, sempre meno guidata, delle piante e dei fiori.

Ma entrambe queste concezioni sono poi riconciliate con quella della preghiera, con l’implorazione più semplice e dolorosa, del cui conforto non avrebbe senso privarsi e che anzi si rivela un segno di autentica e fervida umiltà di fronte al mistero della vita. La preghiera  irrompe nel testo quando il dolore e l’angoscia si fanno insopportabili, nei momenti in cui la Kenosi si compie attraverso l’abbandono a un grido muto, tanto che sembra talvolta di sentire la voce di Simone Weil quando all’improvviso, fissando negli occhi la contraddizione e la sventura, recitava il Padre Nostro.

Dopo questo momentaneo abbandono, ciò che rimane sulla sua scia, purificato, è il desiderio di liberarsi dalla “cappa d’egoismo”, sempre la stessa, che incombe su ciascuno, è il desiderio ragionevole e mite di “rifugiarsi in un luogo ove morire non sia aspro. Ove faccia un po’ meno paura. Dove sia possibile non darsi troppa importanza per l’inevitabile non esserci più, un giorno. Accettando con calma di essere qualcosa di piccolo e indefinito, un puntino nel paesaggio”.

 

Pia Pera, Al giardino ancora non l’ho detto, Ponte alle grazie, Milano, 2016.