ll paradosso celato in voi

Questa lettera immaginaria si ritiene che sia stata scritta da Aglaia Ivànovna Epancina al principe Lev Nikolàjevic Myškin alcuni mesi dopo il loro ultimo  incontro e le sue drammatiche conseguenze.

Probabilmente, quando leggerete queste righe, avrete già avuto occasione d’incontrare maman e le mie sorelle, che sono partite da alcuni giorni per venire a trovarvi. Ho deciso finalmente di scrivervi solo dopo la loro partenza, ed è per questo che non saranno loro a recapitarvi questa lettera. Sono alcune circostanze degli ultimi tempi ad avermi fatto prendere questa decisione, che tuttavia aleggiava in me da già un po’. Nella mia vita sono successe ultimamente tali cose da rendere ancora più impellente il desidero di capire perché, o perlomeno di avere la vostra conferma di non avere frainteso quello che è successo tra noi, specialmente durante il nostro ultimo incontro. Ma prima di tutto, vi scrivo per avere direttamente vostre notizie e per chiedervi semplicemente perdono per non aver capito, per essere stata io a fraintendere per prima.

Certo, tutti pensano che voi siate una persona buona. Anche io sono convinta di questo e non ho alcun timore a confessare di nuovo che vi ho amato fin dal giorno in cui vi ho conosciuto, in un modo che non mi sarà più possibile con nessun altro. La vostra bontà è qualcosa di essenziale e originario: voi siete buono semplicemente perché, pur sapendo prendere posizione e giudicare i comportamenti e le azioni con estrema franchezza, siete incapace di giudicare le persone, o comunque di non provare pietà per chiunque chieda la vostra comprensione e il vostro perdono, perché sapete che il male non proviene dal centro dell’anima umana, dall’essenza degli individui, ma da una sorta di fatale disguido, da qualche combinazione perniciosa di circostanze apparenti con qualche piccola colpa nascosta tra le pieghe iniziali della nostra storia.

Tutti hanno bisogno di essere perdonati, mentre nessuno ha veramente il diritto di non perdonare: questo lo sapete meglio di chiunque altro. Tutta la vostra bontà, o almeno quella che sembra tale a tutti o quasi coloro che vi hanno conosciuto, è fatta di pura comprensione: voi siete il cavaliere povero che non ha tempo per giudicare perché è sempre in procinto di capire. Tutta la vostra intelligenza si è trasformata nella capacità di vedere oltre le apparenze, di andare dritto al cuore delle persone. Un giorno diceste che la bellezza avrebbe salvato il mondo, e ciò che intendevate per bellezza includeva questa capacità di provare pietà, di essere all’unisono con il dolore, ma anche con la gioia, che ogni essere umano può provare.

Tuttavia, paradossalmente, in un certo senso, voi siete anche una persona molto  pericolosa. Certo, lo siete involontariamente e inavvertitamente: ma lo siete di fatto. Quella sera non foste in condizione di fare una scelta semplicemente perché – questo ormai mi è chiaro – amavate entrambe di un amore unico, non comparabile o commisurabile, che non poteva essere sommato o sottratto dall’altro. Forse, se avessi capito questo, e se avessi quindi anche capito che amavate anche me nel modo più pieno, sebbene in un modo impossibile, non mi sarei comportata così come mi sono comportata. Se avessi capito cosa era per voi l’amore, tutto sarebbe stato diverso. Poiché amavate entrambe era giocoforza che restaste con lei, con quella che, in quel preciso momento, aveva un bisogno più urgente di voi, con la donna che rischiava di perdersi all’istante e definitivamente se non ne aveste avuto pietà in una maniera piena e totale. Sottovalutaste, in quel momento, la possibilità che io potessi trovarmi, nonostante le apparenze, in una situazione non molto diversa; ma questo non è importante, perché in un certo senso avevate ragione, sebbene dopo quella sera la mia vita si sia anch’essa persa e io, dopo un matrimonio fallito con una persona che vi somigliava in maniera solo molto superficiale, ma in cui per disperazione io volli scorgere tracce del vostro spirito, ormai non sia più me stessa. Non lo sono perché non credo più che per me sia possibile amare, non solo qualcun altro, ma la mia stessa anima, come se mi avesse tradita, o se io non mi fossi dimostrata all’altezza della sua vocazione.

Forse è vero che ciascuno di noi è colpevole, anche quando non si sa di che cosa, anche quando non si sa spiegare o nemmeno immaginare la propria colpa, ma tra tutte quelle possibili il tradire la propria anima è senza dubbio la più grave e quella che ha le conseguenze più implacabili. Quando quella sera dissi che voi sareste stato capace di amare anche chi vi avesse ingannato, o disprezzato, aggiungendo poi che vi amavo proprio per questo, io intravidi l’esito della tragedia. Perché la vostra capacità d’amare è un paradosso, qualcosa d’insostenibile, da cui la gente normale si sente in dovere di difendersi e che forse può trovare accoglienza ed essere in qualche modo compreso e apprezzato solo nella nostra terra russa.

Le mie accuse di quella sera contro Nastàsia Filíppovna (mi sorprende quasi che ora riesca finalmente a pronunciarne il nome) erano certo ingiuste, e cattive, e pretestuose, ma tutta la mia avversione e il mio risentimento erano in realtà rivolti contro il paradosso che scorgevo già così apertamente. Secondo Evghénij Pàvlovič, con cui ebbi poi occasione di parlare dopo il nostro ultimo incontro e dopo la tragedia che ne seguì, voi non amavate in realtà nessuna delle due, ma io non lo penso, così come non credo che tutta la difficoltà dipendesse dal fatto che amaste entrambe, perché nemmeno questa circostanza avrebbe potuto di per sé costituire una difficoltà insormontabile, dato che in fondo sarebbe stato possibile fare comunque una scelta. Il problema, il paradosso celato in voi, di cui eravate per così dire il portatore innocente, ma non per questo meno pericoloso, era costituito dal fatto che provavate lo stesso amore specifico per chiunque. Essendo l’amore sempre diverso, pur restando sempre lo stesso, la vostra posizione è ineccepibile, perché il vostro era davvero un sentimento equanime, che veniva sempre prima del vostro interesse e del vostro amor proprio. Anzi, penso sia la vostra totale assenza d’amor proprio che vi rende una persona così disarmata e disancorata, un vero idiota, una persona che sa opporre resistenza al male solo attraverso la comprensione e il perdono che voi avete l’abitudine di concedere addirittura preventivamente, dato che sareste comunque incapace di negarlo a chiunque ve ne facesse sincera richiesta e che siete restio a metterne in dubbio la sincerità delle intenzioni.

Anche per questo, in definitiva non penso che il vostro modo di amare sia di questo mondo: anzi, in un certo senso è vero che voi non amate nessuno, che non potete amare nessuno in particolare, perché ciò che desiderate è solo che l'amore giunga in qualche modo a destinazione, non importa a chi e da parte di chi.

Credo che sia proprio quest’aspetto che rischia di avere delle conseguenze sciagurate. La lucidità che mi sta concedendo questa mia nuova lontananza da me stessa non mi regala che barlumi di un dolore ormai freddo e infruttuoso, ma forse è proprio la qualità del mio dolore che mi permette di comprendere bene come fosse proprio la vostra incapacità di opporvi a chi compie il male, pur riconoscendo lo stesso male e giudicandolo con fermezza, la vera fonte dello scandalo, di quello scandalo che ha accompagnato sordamente il vostro arrivo a San Pietroburgo e che è probabilmente all’origine della stessa tragedia con cui si è conclusa la vita di chi amavate con l’unico tipo di amore di cui siete capace. Quando un’indole come la vostra lascia intendere di potersi impegnare in rapporti che hanno come naturale esito il matrimonio, di poter cioè dedicare se stesso ad una persona in particolare, in una maniera privilegiata od esclusiva, allora il paradosso non può alla fine che mostrare il suo volto più crudele.

Persino Rogòžin aveva avvertito in voi la presenza di questa tragicità, fin dal vostro primo incontro, e per questo vi riconobbe, come ebbe occasione di dirmi un giorno, fin dai primi tempi come un “fratello” nonostante foste quasi il suo opposto nel panorama umano. Se lui non avesse disperato, se non avesse pensato che lei non poteva amarlo, perché poteva amare solo voi, allora forse nulla di quanto è successo sarebbe accaduto, perché lei era davvero capace di amare uno come lui, sebbene in un modo diverso, completamente diverso. Secondo me infatti lei vi somigliava molto, almeno nell’essenza dell’anima: ciò che aveva dovuto sopportare e l’integrità con cui lo aveva affrontato (mi sorprende e un po’ mi spaventa oggi l’ammetterlo, ma al tempo stesso mi dà gioia) l’aveva messa in condizione di apprezzarvi nel modo più pieno e di provare la stessa pietà, cosa di cui invece io non ero capace: per questo vi riconobbe come l’unico uomo degno di questo nome che avesse mai conosciuto e per questo i vostri destini furono da subito legati allo stesso filo. L’ho capito solo molto più tardi, ripensando alle sue lettere; solo che lei, mentre aveva bisogno di sentire fino in fondo, di bere fino in fondo il vostro amore, al tempo stesso non se ne sentiva degna. In effetti credo che sia molto difficile sentirsi degni dell’amore di qualcuno quando questo è pieno e integro, così come invece può essere facile accettare di sentirsi amati da una finzione, da un sentimento convenzionale e socialmente ben recitato e supportato.

Con voi questa seconda opzione è comunque fuori luogo e non pertinente. Quando vi vidi e vi ascoltai la prima volta, capii quasi subito che eravate capace di accogliere senza riserve, senza recriminazioni, pregiudizi o rivendicazioni. Lo capii e per questo vi amai, all’inizio avendo paura di ciò che sentivo, ma poi in modo sempre più chiaro e inconfutabile. Ma a differenza di lei io non ero capace di provare la stessa pietà, come per esempio quella che lei provava per Rogòžin. Quando fuggì prima delle nozze lo fece così non solo perché si sentiva indegna di voi e per non rovinarvi la vita, ma anche perché l’accettare fino in fondo la sua pietà per Rogòžin era l’unico modo per somigliarvi fino in fondo, per essere come voi, per potervi amare davvero per l’eternità.

Così, ciò che quella sera mi parve da parte vostra un rifiuto, una presa di posizione tacita, il segno d’un sentimento incompleto, l’anticipazione di una ferita insanabile, la negazione totale di una possibilità, e al tempo stesso l’occasione che mi si offriva per fuggire da voi, poi, a poco a poco, mi si è rivelata come una conseguenza necessaria del vostro carattere e insieme di quello di lei, dello stesso carattere che aveva provocato ciò che sentivo per voi. Quando lei mi scrisse che ero uno “spirito luminoso”, un angelo che non si poteva non amare, poi, di seguito nella stessa lettera, si chiedeva se si potevano amare tutti gli uomini, tutti i propri simili. Dopo essersi fatta molte volte questa domanda era giunta alla conclusione che era una cosa del tutto innaturale, che per una persona comune sarebbe stato impossibile, ma non per me. Naturalmente, parlando di me intendeva in realtà parlare di voi, perché solo voi eravate superiore a qualsiasi offesa, a qualsiasi sdegno personale. Ciò che attribuiva a me, come la capacità di amare senza egoismo, era in realtà riferito a voi, e proprio da questa confusione, da questo suo rimescolare le carte, si possono meglio comprendere e decifrare le sue azioni successive. La donna che vi amava doveva cioè essere degna di voi, e poiché riconosceva che questo era per lei impossibile, quando le dimostrai, con il mio comportamento e le mie parole di quella sera, di essere anch’io indegna di voi, allora decise di riprendervi.   

Vi ricordate quando scoppiai a ridervi in faccia? E di quando vi chiesi conto delle vostre rendite, chiedendovi poi perdono per quella che ebbi poi la sfrontataggine di definire come una mia monelleria? Anche quei miei comportamenti così oscillanti e contraddittori dipendevano dal fatto che avevo dentro di me già tutto deciso, come maman aveva ben capito: avevo deciso che sarei stata con voi, per voi, tutta la vita. Ma c’era un’ombra: l’ombra della vostra infinita pietà per quella donna (ecco che torno a chiamarla così), la compassione dolorosa che v’ispirava, continuavano a insinuarsi in me e a farmi percepire l’impossibilità della cosa, con un fatalismo molto simile a quello che mi indusse a presagire la rottura del vaso quella sera.

Sì, è vero, avevo in qualche modo timore di una vostra bocciatura in società, avevo paura che vi dimostraste definitivamente un vero idiota, ma non perché la cosa mi dispiacesse o mi creasse un qualche imbarazzo, ma solo perché sapevo che ne avreste sofferto e tacitamente temevo che una simile sofferenza vi avrebbe sospinto per fatalismo nelle braccia di lei, che era probabilmente l’unica persona che fosse capace di racchiudere e sopportare tutta la compassione e tutto il dolore di cui eravate capace.

Nel mezzo del tumulto che si levò subito dopo la rottura di quel vaso vi osservavo senza parole, ma non in preda a disappunto o collera: ciò che provai per voi in quella circostanza fu una simpatia piena, un senso di appartenenza, che fu subito rafforzato dalla vostra reazione allo spaesamento iniziale. Anche quel fatalismo che in un primo momento prese in voi il sopravvento sul disagio lasciò ben presto spazio alla gratitudine per la comprensione e il perdono che percepiste tutt’intorno, alla gioia per la convinzione di non aver offeso nessuno, per non aver dato alcuno scandalo. Ma come potevate darlo se eravate voi stesso lo scandalo? L’unico vero scandalo che ha incrociato da molto tempo le nostre vite? Qualche istante dopo, vi chiedeste cosa fossero il dolore e la sventura per chi aveva la forza di essere felice per il semplice fatto di poter vedere un albero o parlare con qualcuno incontrato per caso, e poi aveste una delle vostre crisi, come a confermare che una simile forma di felicità non può essere sopportata da nessun essere umano. Questo è lo scandalo più grande: proporre, e addirittura incarnare, una forma di felicità tanto ingannevole, che non può essere praticata, messa in atto, sostenuta con una qualche continuità nella vita e che può essere solo fonte di dolorose disillusioni. Era questo che dava realmente scandalo e fu questo a condurre alla tragedia.

Non so se voi siate oggi in grado di sopportare le conseguenze della vostra pietà, o come vi regoliate con l’amore che vi si è radicato ostinatamente nel cuore, ma sebbene la mia vita ne sia risultata distrutta e spaesata per un lungo tratto, tanto che solo negli ultimi giorni mi è parso di ritrovarci un filo di senso e di speranza, se voi lo volete, se voi me lo concedete, io sono pronta a correre fino in fondo, a bere fino in fondo e con gioia il calice che l’altra mi ha lasciato. È per dirvi questo, per chiedervi questo, che ho deciso di scrivervi e basterà da parte vostra un cenno d’assenso e correrò da voi come in tanti altri momenti, senza avere pienamente il coraggio d’ammetterlo, avrei voluto fare: correrò incontro al vostro abbraccio esitante e forte e poi reclinerò la testa sul vostro cuore  puro, da cui ci si può solo attendere un amore pieno, remoto e leggero.

 

(Dopo aver esitato per qualche giorno a inviare questa lettera, la madre di Aglaia e le sorelle, ritornate dalla Svizzera, la informarono delle condizione di salute in cui si trovava il Principe, dello stato di confusione mentale in cui versava e del fatto che ormai in pratica non riconoscesse più nessuno. Ciò nonostante, Aglaia volle spedirgli questa lettera, che non fu mai letta, ma solo tenuta in una mano e osservata per qualche istante).