La poetica di Li Po, tra Confucio e Lao-Tzu

     “Se la nostra vita fosse in ogni momento piena di senso, se il mondo fosse un giardino dove gli uomini, godendosi il sole, conversassero tutti amichevolmente, non ci siederemmo in un angolo a scrivere”. In fondo, questa semplice considerazione del narratore de Il primo libro di Li Po - il poeta vissuto 1200 anni fa (701-762 dopo Cristo) che costituisce insieme a Po Chui, Tu Fu e Wang Wei uno dei messimi classici della poesia cinese - potrebbe bastare a dar un’idea del senso della letteratura.

    Li Po ammirava i paesaggi ed era solito passeggiare tra fertili pianure e montagne boschive: “su ponti oscillanti di legno, passava fra cime di pietra, vedeva strapiombi da cui balzavano le acque urlanti, mentre i banchi di nebbia s’arrampicavano sui fianchi frastagliati. O da alti valichi scorgeva, nelle pianure, laghi verde-azzurri e risaie allagate con le pozze d’acqua luccicanti al sole. Senza scendere dal mulo, a volte prendeva appunti o buttava giù una poesia. O fermata la bestia, schizzava a inchiostro l’impressione che uno scorcio di paesaggio gli faceva.”

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La quotidiana mancanza dell'onore

 

   La quotidiana mancanza è veramente un libro malinconico e obliquo, forse per certi versi anche tragico, in cui si affrontano, con grande coraggio intellettuale, snodi culturali di portata epocale con leggerezza confidenziale e a tratti diaristica. In questo breve ma denso saggio Fabio Bazzani, che ha insegnato per anni Etica e Storia della filosofia morale presso l’Università di Firenze, si misura infatti con la prevalente liquidità categoriale dell’epoca in corso e con l’omologazione delle élite intellettuali che la caratterizza: se infatti “l’imbecillità dei popoli è dato storico costante, l’imbecillità delle élite è fenomeno relativamente recente, peculiarmente tardo-moderno”.

    Il semplificarsi delle competenze richieste oggi per far parte di tali élite non esige più “un cursus honorum fatto di studi, letture, esperienza affinata nelle professioni”. Chiunque può fare il ministro o il professore universitario: basta che sia ben ammaestrato “nella proceduralità con la quale si può soddisfare ai bisogni di quella dinamica. Cambia la soggettività; il soggetto è la procedura in sé”. Nella società di massa tardo-moderna, “nella nuova era della rivoluzione industriale elettronica e telematica”, si sono infatti prima sperimentate e poi consolidate nuove forme di asservimento grazie alle quali i servi sanno sempre meno di essere tali: “le catene non appaiono più e non c’è alcun potere personale che le imponga e, d’altra parte, lo stesso potere personale sussiste solo come residualità storica ridotta a simulacro, a finzione, a vuoto involucro ideologico”.

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Il lettore, il narrare e gli elenchi del telefono

 

   Lo scrittore svizzero Peter Bichsel abitò a Bergen, nelle immediate vicinanze di Francoforte, dopo aver ricevuto il premio “Stadtschreiber von Bergen”. Quando si riceveva questo premio era infatti consuetudine risiedere per un anno in città a spese della comunità, assumendo una funzione pubblica di scrittore. Il lettore, il narrare, raccoglie proprio cinque lezioni tenute da Bichsel nel gennaio e febbraio del 1982, quando abitava a Bergen, nella vicina università di Francoforte.

    La convinzione che emerge nell’arco di tutto questo piccolo libro è che la letteratura nasca soltanto nella letteratura, “dove non esistono iniziatori, ma soltanto imitatori che riflettono. E non è la realtà ad essere imitata, bensì la situazione del narrare”. La letteratura è cioè per Bichsel qualcosa di diverso dalla vita ed entrambe non necessariamente hanno bisogno l’una dell’altra, o almeno non ne hanno bisogno in modo simmetrico e proporzionale.

    A questo proposito l’autore riporta un suo incontro con un vecchio saggio della tribù degli Houssa, nel Sahara, il quale era solito raccontare storie per impedire a sé e agli altri di parlare: “raccontare storie per non dover parlare: anche questa – secondo Bishsel - può essere una delle ragioni dell’esistenza della letteratura”, che “non è la vita. Si può vivere senza letteratura. La letteratura è qualcosa di accessorio. Nella letteratura la lingua assume un’altra funzione che nel parlare. La letteratura può scaturire dall’assenza di parola”.

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Conversazioni d'amore in una stanza vuota

 

   Era mai stato felice Evgenij Petrovič? Sì, lo era stato molto, ma da tempo non lo era più. Da quando la donna che aveva amato era scomparsa lui si aggirava nella sua vita senza una meta e la successione metodica delle sue giornate pareva sospesa sopra la membrana sottile di un senso arcano, su una superficie piatta e scivolosa dove non c’era più spazio per alcuna percezione piena della propria esistenza.

    Il protagonista di questo lungo racconto, o breve romanzo, di Nina Berberova - la scrittrice russa nata San Pietroburgo nel 1901 e morta a Filadelfia, negli Stati uniti, nel 1993 – è una persona a tratti spaesata, incapace di cambiare, di vivere come gli altri, e in cerca di un centro per la propria anima. Per emigrare da Parigi negli Stati Uniti cerca di vendere due orecchini, ma una delle due perle è intaccata da un “male nero” che ne abbatte drasticamente il valore. Per racimolare il denaro necessario per partire decide allora di condivide la stanza che ha in affitto con Alja Ivanova, una ragazza che balla all’Empire.

   Il viso di Alja “formava un ovale perfetto e il collo risultava un po’ troppo lungo”; aveva capelli lisci e orecchie strette, un colorito piuttosto pallido, che emanava una certa purezza. Gli occhi e il sorriso non erano mai ambigui e tutto il suo essere “comunicava limpidezza”. Anche il suo corpo, in cui ogni muscolo era ben allenato a causa del suo lavoro, assomigliava al suo viso: “era puro, lindo e vagamente etereo”, e quando il suo profilo era chinato sulla pagina di un libro, mentre con la lunga mano magra si ravviava i capelli, la sua presenza nella stanza dove convivevano lo rendeva stranamente felice.

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La voce negli occhi e gli abbracci perduti del cuore

 

   Se Orfeo non si fosse voltato e se la vita potesse continuare oltre ogni apparente morte? O se alla fine ci fosse davvero, come si chiede Fernando Pessoa, “qualcosa così, come un perdono”? Forse allora questi racconti penetranti e dolenti di Laura Guidugli non sarebbero stati necessari per svelare, una volta di più, che proprio lì, in quanto non rimane, nell’ombra di una perdita definitiva o di qualcosa che finisce senza una ragione plausibile, viene conservato, come in uno scrigno, il senso di ogni esistenza.

    Laura Guidugli - docente di letteratura (al Liceo “Majorana” di Capannori) destinata a lasciare sempreverdi e care memorie tra i suoi studenti per la sua palese confidenza con tutto quanto è umano - in questa silloge di racconti, (Abbraccia dove sei, peQuod editore) narra con limpido sguardo dell’eterno litigio tra la terra e il cielo, di quanto s’insinua tra le attese che aprono squarci improvvisi di vita, tra baci fugaci, abbracci notturni e insonni rammendi di sposi. Queste storie straordinarie e comuni, scavate da dita lievi che trattengono il piacere quasi tattile di assaporare ogni dettaglio, sono percorse da una trina sottile di esitazioni e scoperte.

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L'eco di un lamento che ancora risuona

  

   Ceccardo Roccatagliata Ceccardi fu un classicista sui generis: legato all’esperienza della riviera ligure accanto a Angiolo Silvio Novaro, senza essere un tipico rappresentante del mondo ligustico, prefigurò un paesaggio ‘esistenziale’ cui avrebbero in seguito attinto anche Sbarbaro e Montale. Nato a Genova il 6 gennaio del 1871, coltivò con cura il verso carducciano rivelando un certo gusto per l’imitazione dei suoi modelli lirici prediletti. Si misurò con la lezione stilistica di Leopardi e dimostrò un certo eclettismo, cercando nella letteratura anche delle gratificazioni storiche e personali. Pur trovando conforto nella tradizione la sua fu anche una poesia impegnata a manifestare il proprio dissenso con la società del suo tempo.

    Da ragazzo s’innamorò perdutamente della figlia di un rivenditore di fruste, di peperoni e di fulminanti. Poiché la fanciulla non lo corrispose, caricò una vecchia pistola e si sparò al cuore. Riuscì a salvarsi, portando però per tutta la vita le tracce delle ferite mal rimarginate. Si sposò poi, nel 1901, con Francesca Giovannetti, una ragazza di Sant’Anna a Pelago, senza essere mai pienamente accettato dalla sua famiglia. Ebbero un figlio, Tristano, che fu afflitto da persistenti malattie e fu grande causa di apprensione per entrambi i genitori.

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Il ricordo delle foibe, tra omissioni e oblio

    Il libro di Erik Gobetti E allora le foibe è ricco di considerazioni interessanti e in parte condivisibili, anche se al prezzo di voler talora fronteggiare, seppur con dati indubbiamente utili alla ricostruzione della vicenda, delle tesi che l’autore individua come falsi obiettivi polemici. Nel perseguire quest’intento, pur essendo una buona fonte d’informazioni e di analisi su alcuni aspetti, risulta omissivo su almeno due questioni centrali: quella relativa alle modalità specifiche con cui vennero uccisi gli infoibati e il lungo oblio sulla loro sorte.  

   Ma procediamo con ordine. Gobetti ricorda giustamente che il regime fascista aveva imposto “l’uso obbligatorio della lingua italiana nei luoghi pubblici e persino nelle chiese (con il Concordato del 1929)”, che aveva italianizzato “forzatamente nomi, cognomi e toponimi”, ordinato “la chiusura delle scuole, delle associazioni e dei luoghi di ritrovo sloveni e croati. Oltre alla minaccia portata alle identità nazionali, la politica fascista aveva anche comportato “un generale impoverimento della popolazione slava, esclusa dai posti di potere, da molti impieghi pubblici e svantaggiata in ogni contesto lavorativo.” Ma non ci fu solo questo: sull’isola di Arbe/Rab, per esempio, a poche miglia marine da Fiume, vennero “internate in totale, nell’arco di circa un anno, dall’estate del 1942 al settembre del 1943, 30.000 persone”, di cui almeno 1500, in gran parte donne e bambini, morirono per fame, inedia ed epidemie.

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La melanconia degli uomini straordinari

   La raccolta che va sotto il nome di Problemata, parte integrante del corpus aristotelico, non è sicuramente da attribuire nella sua interezza ad Aristotele. Si tratta infatti di un’opera di scuola in cui, nella forma d’interrogazioni, vengono affrontate questioni disparate. Tra queste, il Problema XXX, 1 (ETS edizioni) ha per titolo La saggezza, l’intelletto, la sapienza e costituisce una vera e propria monografia sulla bile nera, le cui fluttuazioni sono nell’antichità considerate spesso come causa dell’umore melanconico, sia nelle sue forme più lievi sia in quelle che potremmo considerare particolarmente dolorose o patologiche. Questo testo ha costituito nei secoli successivi un punto di riferimento fondamentale in molte trattazioni di questo tema, da Marsilio Ficino e Robert Burton, l’autore di Anatomia della melanconia, fino alle creazioni artistiche di Albrecht Dürer.

   Come osserva Bruno Centrone, il curatore del volume, nel suo saggio introduttivo, ciò che colpisce alla lettura delle prime righe di Problemata XXX “è l’assunzione indiscussa che uomini straordinari del passato siano stati melanconici”. Se Platone non si era occupato molto della melanconia, pur caratterizzando la figura del tiranno come malinconico e pur soffermandosi talora sulla mania, nelle Etiche e nei Parva naturalia Aristotele vi fa più volte cenno. Nel De somno et vigilia stabilisce poi la connessione tra la melanconia e la bile nera. In linea generale, per Aristotele i tipi melanconici possono essere voraci, anche quando sono macilenti, si trovano quasi sempre in condizioni d’intenso desiderio, sono rapidi di mente e agitati da immagini che evocano piaceri di ogni sorta in modo vivido e intenso. Possono essere afflitti da una forma d’incontinenza (acrasia) più facile da curare di quanto non sia solitamente.

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La scienza spiegata dalla sua storia

 

   La rivoluzione dimenticata di Lucio Russo fu pubblicata per la prima volta nel 1996. L’ultima edizione, la dodicesima, è del 2021. Da allora, il quadro delle conoscenze sul pensiero scientifico ellenistico, che costituisce l’argomento principale del saggio, è notevolmente cambiato. La nuova edizione del libro di Russo, tenendo conto di queste nuove acquisizioni e di alcuni nuovi lavori specialistici, costituisce una revisione di cui alcune congetture dell’autore che si sono poi trasformate in tesi ampiamente documentate.

   L’utilità del termine “scienza” consiste per Russo nel consentire di distinguere la stessa conoscenza scientifica da altri tipi di conoscenza. Ma quali sono le caratteristiche essenziali della conoscenza scientifica? Intanto, le sue affermazioni “non riguardano oggetti concreti, ma enti teorici specifici. Alcuni esempi di enti teorici sono gli angoli e i segmenti della geometria o la temperatura e l’entropia della termodinamica”.

    In secondo luogo, “una teoria scientifica ha una struttura rigorosamente deduttiva; è costituita cioè da pochi enunciati fondamentali (detti assiomi, postulati o principi) sui propri enti caratteristici e da tutte le affermazioni che si possono considerare come loro conseguenze”.

  In terzo luogo, “le applicazioni al mondo reale sono basate su regole di corrispondenza tra gli enti della teoria e gli oggetti concreti. Le regole di corrispondenza, a differenza delle affermazioni interne alla teoria, non hanno alcuna garanzia assoluta. Il metodo fondamentale per controllare la validità delle regole di corrispondenza, cioè l’applicabilità della teoria, è il metodo sperimentale”.

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Il lamento cromatico di una regina stregata

 

  Sulla vita, la personalità e l’opera di Sylvia Plath è stato recentemente ripubblicato un libro di Leonetta Bentivoglio, scrittrice e giornalista culturale di Repubblica, che sembra scaturito da conversazioni immaginarie; sicuramente irrealistiche alla luce dei decenni che separano la vita dell’autrice da quella della poetessa americana, ma che possono sembrare il frutto di una frequentazione amichevole e profonda, e persino di confidenze condivise. In Sylvia Plath. Il lamento della regina (2022, Edizioni Clichy), la Bentivoglio pare infatti raccontare le vicende dell’anima di una sua amica eterna e lo fa con ritmo serrato, attraverso una densa scansione di momenti cruciali, di testi poetici e frammenti diaristici, e con un’intensità narrativa che riesce quasi a dissolvere il tempo che intercorre tra le loro vite.

   Due giorni dopo il primo tentativo di suicidio Sylvia Plath viene ritrovata in garage agonizzante, ma ancora viva, dal fratello Warren. Affidata alle cure di un giovane psichiatra, dovrà imparare di nuovo a leggere e a scrivere. A fine gennaio del 1954, dopo essere stata curata anche con degli elettroshock, è dichiarata guarita. Può così rientrare allo Smith College, dove sceglie, come argomento della sua tesi di laurea, la figura del doppio nei romanzi di Dostoevskij.

  Nel gennaio del 1955 consegna la tesi, intitolata The Magic Mirror: A Study in the Double in Two of Dostoevsky’s Novels. Il tema del doppio e dello specchio, la sua presenza invasiva sul fondo della sua anima, l’accompagnerà per tutta la vita, di cui ripercorrerà i momenti cruciali in the Poem for a Birthday: il rapporto con i genitori, il tentato suicidio, gli elettroshock, il matrimonio con Ted Hughes, un poeta di un certo fascino e successo, con cui si sposerà il 16 giugno 1956, la nascita dei figli e poi la separazione.

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52 ritratti d'autore in 52 "lettere scontrose"

    Benedetto Croce sosteneva che quando si perde la capacità d’indignarsi tutto è finito. Quest’affermazione è particolarmente appropriata per i giornalisti o gli scrittori, e per gli intellettuali in genere. “Vittima di ogni attualità possibile”, come si definì nei suoi giorni estremi, Giovanni Arpino considerò la contemporaneità il sale della propria vita, ma seppe sempre esercitare con maestria l’arte sottile di manifestare la sua indignazione rispetto a quanto accadeva intorno a lui in modo argomentato, pungente, gentile e intelligente. Negli anni del boom economico, quando tutto, o quasi, sembrava filare per il meglio e un certo diffuso ottimismo veleggiava per le strade, le spiagge e gli stadi di calcio, fu una voce spesso dissonante, poco incline ad assecondare acriticamente mode culturali o di costume.  

   In queste Lettere scontrose, (e una risposta, quella di Totò) si dimostra in particolare un grande ritrattista, in grado di restituirci gran parte della sapidità di quegli anni, ovvero del biennio 1964-1965, quando queste lettere furono scritte su Tempo, il settimanale diretto da Arturo Tofanelli, rivelando una volta di più, oltre a una certa spigolosità del proprio carattere, anche la sua finezza psicologica e la grande qualità letteraria della sua prosa.

   Arpino scrive a vari protagonisti di quegli anni, attivi in campi assai diversi: dalla politica, al cinema e al calcio. Tra le lettere inviate ai politici, quella destinata a Ugo La Malfa è forse una delle più efficaci e utili per comprendere anche le presenti circostanze patrie, che hanno più di qualche punto in comune con quelle di allora. Arpino si sofferma infatti sulle “congreghe d’inquisitori” che si stavano formando in Italia durante gli anni 60 e che prima o poi avrebbero deciso di “bruciare gli intelligenti rimasti, come mostri pericolosi, asociali, contagiosi”. Forse l’intelligenza stava “diventando un vizio, una mostruosa verruca, che l’uomo, per essere felice e candido e leggero e utile a se stesso”, doveva “sapersi strappare dalle carni” e forse l’avvenire del mondo non dipendeva più “dall’intelligenza, ma da una pace idiota e infantile del cervello”.

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Christian Bobin, la pioggia e la musica di Mozart

 

   Lo scrittore francese Christian Bobin è venuto a mancare da poco più di un mese, esattamente il 24 novembre 2022. Era nato a Creusot, in Borgogna, il 24 Aprile 1951 e lì, nella sua casa di campagna, ha trascorso tutta la sua vita. Ci piace ricordarne qui l’opera parlando di un suo piccolo libro che trova in Mozart e nella pioggia il proprio saliente pretesto, l’occasione preziosa colta dall’autore per raccontare al lettore anche il proprio rapporto con la letteratura.

   Quasi tutti i libri di Bobin sono “piccoli”, forse perché tutta la sua opera è attraversata da un desiderio di semplicità e di chiarezza, ovvero del tratto principale della musica di Mozart, le cui grandi arie fanno luccicare le note come le foglie di un albero “sotto la benedizione di una pioggia d’estate”. Quello della chiarezza è infatti per Bobin “il più bel dono che possiamo ricevere in questa vita tenebrosa”, ma non si tratta di un dono innocuo, perché talvolta può trafiggerci come un dardo fatale, può illuminarci o ferirci con la stessa disinvoltura, probabilmente perché tutto ciò che ci parla in modo chiaro della vita è anche un’agnizione della morte.

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Scrittori inglesi e americani nel cuore della "patria della bellezza"

    Quando Percy Bysshe Shelley salpò dal porto di Livorno a bordo della sua imbarcazione, il Don Juan, per recarsi a Lerici era l’otto Luglio del 1822. Durante quell’estate particolarmente calda ebbe così inizio il suo ultimo viaggio e la storia del suo naufragio. Il suo corpo, già in stato di putrefazione, fu ritrovato sulla spiaggia di Viareggio e venne riconosciuto solo perché aveva ancora in tasca un volume delle poesie di John Keats. George Gordon Byron e altri amici assistettero sul posto alla cremazione del corpo di Shelley pensando alla grandezza e alla desolazione che quei luoghi gli avevano sempre ispirato e videro il suo cadavere aprirsi davanti ai loro occhi fino a scoprire il cuore.

   A Viareggio, non lontano dal molo, una grande piazza alberata è ancora intitolata al poeta, che pare fosse solito passare ore a osservare le lucciole. Così almeno riporta Leigh Hunt in una lettera, e una notte a questo caro amico del poeta venne da chiedersi se qualcuna delle particelle che aveva lasciato sulla terra non alimentasse la loro leggiadra e amorevole luce.

   Ma gli inglesi che vissero a lungo in Toscana e che manifestarono ammirazione o amore per questa regione costituiscono una lunga e variegata scia della quale il recente libro di Paolo Fantozzi, (Anglo-Toscana, Apice libri) ci permette di assaporare l’alone. Mary Shelley rimase a lungo in Toscana dopo la morte del marito, innamorandosi della sua lingua, dei suoi costumi e della sua letteratura, orbitando principalmente tra Pisa, Livorno e Firenze e facendo lunghe passeggiate a cavallo tra S. Giuliano e Vicopisano. Nel proporre l’opera di sua moglie a un editore londinese Percy Bysshe Shelley sottolineò che “tutti gli usi, i costumi, tutte le opinioni del tempo vi trovano luogo, tutte le superstizioni, le eresie, le persecuzioni religiose vengono rappresentate”.

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L'anima di un viaggiatore solitario

   I saggi raccolti ne Il diritto e il rovescio sono stati scritti nel 1935 e nel 1936, quando Albert Camus aveva 22 anni. Secondo Brice Perain questo libro contiene quello che lo scrittore franco-algerino ha prodotto di meglio e Camus pensa che contenga più amore di qualsiasi altro suo scritto. Si tratta di cinque brevi racconti, intensi ed esemplari, privi di qualsiasi orpello letterario. Anche la prefazione dell’autore costituisce una sorta di confessione purissima ed essenziale, dalla quale traspare che il loro autore davvero non invidia nulla ed è capace d’ignorare le invidie degli altri.

   Camus dichiara di aver conosciuto la paura e lo sconforto, ma mai l’amarezza. Fin da giovane ha sempre cercato di rispettare una sua massima personale secondo la quale “i propri principi occorre metterli nelle grandi cose”, mentre “per le piccole è sufficiente la misericordia”. Un lieve distacco dagli interessi umani lo ha sempre tenuto lontano dal risentimento. Come artista, ha cominciato a vivere nell’ammirazione, mentre già al tempo dei suoi esordi era un costume diffuso iniziare la carriera demolendo qualche altro scrittore. Le sue passioni non sono invece mai state contro qualcuno e ha a sempre amato le persone che avvertiva come migliori di lui.

   Nella prefazione a questa silloge, Camus racconta anche che la sua ispirazione nasceva in quegli istanti esclusivi in cui l’immaginazione faceva tutt’uno con l’intelligenza, istanti che poi se ne andavano lasciando il campo alla lunga sofferenza dell’esecuzione. In un’atmosfera narrativa in cui la solitudine di ognuno sembra accomunare ciò che la società separa, la stessa solitudine finisce coll’assumere le sembianze di un paradiso, che si rivela però attraverso la disperazione. “Non c’è amore di vivere senza disperazione” – scrive Camus in queste pagine – e al tempo della loro stesura non sapeva ancora a che punto stesse dicendo il vero. Quando giunsero i tempi della disperazione rischiarono di distruggere in lui tutto, “tranne per l’appunto la fame disordinata di vivere”, perché la sua anima assomigliava a “un fuoco che soffre se non divampa”.

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Dalla certezza d'essere alla sua estinzione e ritorno

   La traduzione in italiano dei Quaderni di tutto e nulla di Macedonio Fernández (per Prospero editore, a cura di Irina Bajini) è di buon auspicio: consente infatti di sperare che uno degli scrittori e dei pensatori più originali dell’America latina, maestro e amico di Jorge Luis Borges, sia finalmente conosciuto anche in Italia come in molti altri paesi del mondo e come da troppo tempo merita.

   Le traduzioni di opere letterarie di Macedonio in Italia sono state infatti fino ad oggi piuttosto rare: la più recente, presso l’editore Castelvecchi (dopo la prima e storica per il Melangolo, del 1992), è quella del Museo del Romanzo della Eterna; ma bisogna andare indietro con gli anni per trovarne una di qualche racconto: una breve raccolta fu pubblicata nella Biblioteca blu di Franco Maria Ricci, a cura di Marcelo Ravoni, col titolo La materia del Nulla.

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Hume e Rousseau, ovvero Atene e Sparta

   L’ultimo saggio di Lorenzo Infantino (Cercatori di libertà, Rubbettino Editore) prende spunto dalla convinzione che una civiltà non sia in grado di prevedere il proprio progresso. Questa circostanza dovrebbe indurci a una maggiore modestia e a una più cauta fiducia nelle leggi della storia.  Si tratta a ben vedere di una concezione antistoricista già enucleata in modo articolato da Karl Popper, ma che Infantino sviluppa attraverso un percorso critico originale e ricco di spunti utili per approfondimenti ulteriori. Particolarmente interessante è la prima parte del saggio, che è caratterizzata da un confronto tra la visione politica di Hume e quella di Rousseau, con una dettagliata ricostruzione storica della loro relazione umana e culturale.  

   Fu per prima Mme de Boufflers a chiedere a Hume di ospitare Rousseau in Inghilterra, anche per evitargli d’incorrere negli effetti di un mandato di cattura spiccato a suo carico dopo che l’Émile era stato condannato al rogo. Raggiunto da un messo che lo avvertiva del suo imminente arresto, Rousseau si vestì di fretta e dopo aver pensato in un primo momento di rifugiarsi a Ginevra ci ripensò e decise di recarsi in Inghilterra da Hume. Ma alcuni mesi dopo, in seguito ad una burla che urtò la sua suscettibilità, i loro rapporti iniziarono a deteriorarsi progressivamente, così da portare meglio alla luce anche le profonde differenze tra le loro concezioni filosofiche e politiche.

   Quanto arriverà a pensare Hume di Rousseau “non è diverso da quello che pensavano gli Enciclopedisti. Già in una lettera inviata a Mme de Boufflers il 23 gennaio del 1763, lo scozzese aveva affermato: ‘ci sono ragioni per sospettare che egli scelga i suoi temi, più che per convinzione, per il piacere di mostrare la sua inventiva e sorprendere il lettore con i suoi paradossi’ ”.

   Prima di Hume, già Voltaire si era espresso criticamente nei confronti del pensatore ginevrino, senza fargliene mistero. Come ricorda ancora Infantino, dopo aver avuto una copia del Discours sur l’inégalité parmi les hommes, Voltaire “aveva scritto a Rousseau (30 agosto 1755): ‘Ho ricevuto, signore, il vostro nuovo libro contro il genere umano, vi ringrazio […]. Non è stata mai spesa tanta ingegnosità per renderci simili alle bestie. Quando si legge la vostra opera, viene voglia di camminare a quattro zampe’. Voltaire aveva poi aggiunto: ‘Tuttavia, poiché è da più di sessant’anni che ho perduto tale abitudine, sento che mi è impossibile riacquistarla’; e ancora: ‘Non posso più imbarcarmi per andare a trovare i selvaggi del Canada’, perché le ‘malattie a cui sono condannato m’impongono di avere disponibile un medico dell’Europa […], mi limito a essere un tranquillo selvaggio, nella solitudine che ho scelto vicino alla vostra patria’ ”.

   La fine ironia di Voltaire può aiutare a comprendere meglio anche quell’irriducibile contrapposizione tra Hume e Rousseau che coinvolge molti grandi temi della riflessione filosofica illuminista, come lo stato di natura, il contratto originario, la proprietà privata, la natura del denaro o delle arti. Hume rifiutava “l’idea di un inizio della società” e non esitava “a considerare lo stato di natura ‘come una semplice finzione, non diversa dall’età dell’oro inventata dai poeti’ ”.  Ma non solo: era anche convinto che le regole della morale non fossero “conclusioni della nostra ragione” e che quindi non ci fosse “una scienza del Bene e del Male”; il che è, secondo Infantino, “l’acquisizione che sta alla base della libertà di coscienza”.   

   A differenza di Hume, Rousseau ha inseguito l’illusione che la volontà del singolo potesse essere annullata in un “punto di vista privilegiato sul mondo”. Poi, quando si rese conto di avere imboccato una via senza uscita riconobbe che per rendere efficace e reale un simile punto di vista ci sarebbe voluta “un’intelligenza superiore” in grado di comprendere tutte le passioni degli uomini senza provarne alcuna. Pur non avendo alcun rapporto con la nostra natura, avrebbe dovuto conoscerla a fondo ed essere in grado di conseguire la propria felicità indipendentemente da noi, ma avendo al tempo stesso seriamente a cuore la nostra. In pratica, ammise che ci sarebbero voluti degli Dei “per dare leggi agli uomini”, il che in effetti costituisce – come rileva Infantino – “la solenne dichiarazione del suo fallimento: perché l’onniscienza non è una prerogativa umana”.

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Essere un altro, nei sogni di altri

    Nell’introduzione a Lo specchio che fugge, il volume di racconti di Giovanni Papini pubblicato in traduzione italiana ne La biblioteca di Babele, la storica collana di Franco Maria Ricci curata dallo stesso Borges, quest’ultimo spiega le ragioni della sua ammirazione per uno degli autori che, insieme a Dante e a Croce, lo indusse a imparare l’italiano e che oggi è spesso relegato, anche in molti manuali liceali, entro desolanti spazi marginali.

   “A somiglianza di Poe, che senza dubbio fu uno dei suoi maestri, Giovanni Papini non vuole che i suoi racconti fantastici appaiano reali. Il lettore sente dall’inizio l’irrealtà dell’ambito di ciascuno.  Ho citato Poe; – continua Borges – potremmo aggiungere che questa tradizione è quella dei romantici tedeschi e delle Mille e una Notte. Questa convinzione di irrealtà corrisponde a ciò che sappiamo del suo destino, sempre insidiato dall’agguato dell’incubo, che inesorabilmente lo accerchiò negli ultimi anni”.

   La silloge di racconti in oggetto inizia con Due immagini in una vasca, in cui un uomo si specchia nel riflesso acqueo della sua immagine di sette anni prima. Dopo aver constatato che soltanto l’impossibile diviene reale, dato che solo l’impossibile condivide col reale una dimensione assoluta, prenderà atto che dalla convivenza con quel se stesso anteriore scaturirono per lui alcuni giorni d’impreveduta gioia, che poi, a poco a poco, si trasformò tuttavia in insofferenza e disprezzo.

   Nel secondo racconto, Una storia completamente assurda, un uomo trova per caso nel libro scritto da un altro, a lui in precedenza ignoto, il resoconto esatto della sua vita, presentata come fosse una storia immaginaria, storia che il suo inopinato protagonista in carne ed ossa confesserà poi all’autore di trovare “stupida, noiosa, incoerente e abominevole”.

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E in questo istante tu dormi e sorridi

 

   Lo sdegno che da ragazzo Lapo provava per l'ingiustizia gli era rimasto nel sangue, come il gusto di ricordare. Anche nella capanna assediata dalla furia di un temporale il passato lasciava la sua orma. Gli uomini scompaiono tutti, pensava, chi da gigante e chi da nano, sotto il cielo stellato o dentro un abisso di silenzio, scompaiono lasciando una debole memoria o una traccia profonda.

    Quando si fu estinta in lui ogni forma d'intolleranza giovanile, quella "che divideva gli uomini in 'compagni' e 'nemici', che rendeva ciechi di fronte alle ragioni dell'altro, al mistero del suo essere uomo", il professor Lapo Tusci, docente di materia letterarie, si recava spesso sul passo di Dante, sul colle per cui i pisan veder Lucca non ponno: gli piaceva pensare che da lì fosse passato il sommo poeta e vi si tratteneva a lasciar affiorare i ricordi della sua vita. Di quando bambino, in soffitta, osservava il pulviscolo danzare in un fascio di luce mentre spiava le formiche, o di quella volta che schiacciò un ragno facendone uscire un liquido giallognolo. Da quella soffitta "il mondo gli pareva piccolo e buffo" e mentre sognava di recitarvi un ruolo da protagonista si sentiva già un suo spettatore appartato.

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Nei ripostigli del cuore, sentire le cose parlare

    Come un pupazzo a molla che salta da un ventre di legno, preda del desiderio di prendere ancora e sempre parte alla vita, o come un foglio accartocciato in un cestino e riaperto con circospezione per ritrovarvi le tracce di quanto non è mai accaduto, o  “un sogno impalpabile di luce e di calore/che vaga tra l’erba e le piante del prato”, siamo alla fine questo stesso qualcuno afferrato da “una acuta ed inutile voglia” di sedersi per terra e di non fare più nulla per lasciarsi sorprendere dal proprio sguardo sul mondo. Si tratta solo di sapersi riconoscere in pochi momenti essenziali in cui si resta sospesi, in quei pochi smisurati istanti in cui la vita intera pare tirare le fila e disegnare un profilo nell’aria, il nostro o quello di uno sconosciuto, di quel pupazzo un po’ sinistro e ignoto che siamo, sogni di altri non meno ignoti, di un destino ridente che ci fa assomigliare ad un piccolo Dio con la sua aura di banalità che lo accompagna come un’ombra.
   "Cantiamo ciò che non abbiamo": in questo verso, che dà anche il titolo a questa raccolta di poesie di Marco Giovannetti, sembra riecheggiare, come in un romanzo di Vittorio Saltini di un po’ di anni fa, un verso di Antonio Machado: "Se canta lo que che se pierde": quel che non abbiamo o abbiamo perduto è infatti ciò che rimane accartocciato nel cestino, è “l’angoscia di non poter urlare il nostro niente/come un ciclope accecato, irriso”.

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Il sentimento estetico di un intellettuale disorganico

    Il 7 novembre 2016 Mario Perniola, uno dei maggiori e più originali filosofi italiani dell'ultimo mezzo secolo nonché uno dei pochi ben conosciuti all'estero, ebbe dal suo medico una prognosi infausta: "un anno di vita. Non un mese di più, né un mese di meno".

    Cosa accadde durante quell'anno Perniola lo racconta in un libro che è anche un testamento filosofico: Tiresia contro Edipo. Vita di un intellettuale disorganico (Il melangolo edizioni, Genova, 2021), libro che è essenzialmente il tentativo di decifrare il senso del proprio destino alla luce della propria malattia. S'ispira in tale tentativo all'idea stoica di amor fati, che Perniola definisce come "l'adesione incondizionata a ciò che è stato, a ciò che è, a ciò che sarà", e cioè a quella "riconoscenza nei confronti del nostro destino" che si concilia in lui con quel sentimento estetico che lo ha accompagnato durante tutta la vita.

    Come osserva Enea Bianchi nella bella introduzione al volume da lui curato – gli stoici, per i quali la realtà è permeata dal logos, rintracciano la bellezza e il vero bene nel mondo e non in un mondo dietro al mondo". Rintracciare la bellezza nel mondo, saperla trovare nel proprio destino anche quando ci conduce all'incontro con Madame Morte, è uno dei principali motivi ricorrenti in questo libro, e poiché per farlo è necessario mettersi alla ricerca delle cause psicologiche del suo male a questo fine viene evocato Tiresia, il divinatore della tragedia di Edipo, proprio in quanto è ritenuto in grado di anticipare le cause psicologiche del male. E secondo l'autore, nel suo caso, l'origine del male è riconducibile al bisogno di essere visti.

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