Sull'insegnamento della religione nelle scuole

   Sull’insegnamento della religione cattolica nella scuola italiana, sull’opportunità o meno di rivedere il Concordato, sulla supposta ingerenza della Chiesa nella vita politica del Paese  i pareri dei cittadini e delle forze politiche sono piuttosto diversi e spesso contrastanti. Raramente, tuttavia, i media consentono che su questi temi vengano svolti dibattiti articolati e approfonditi, essendo gli stessi media piuttosto inclini a concedere i propri spazi alla propaganda delle posizioni – quasi mai argomentate - delle varie fazioni ideologiche. In particolare, il dibattito sull’insegnamento della religione cattolica nella scuola italiana brilla sui media per la sua assenza, mentre, anche alla luce della crescente multiculturalità e multireligiosità che caratterizza la società italiana, questo tema meriterebbe di essere affrontato con una certa urgenza.

     In Italia, v’è chi considera l’insegnamento della religione – almeno nella sua attuale forma opzionale - giusto e compatibile con la laicità dello Stato e chi, a tutela di questa, preferirebbe che fosse comunque abolito. Due posizioni chiare, e che sembrano esaurire il campo delle possibili alternative.
   Tuttavia, non è arduo rilevare come, anche chi rappresenta le posizioni più marcatamente laiciste, e quindi più critiche nei confronti delle attuali norme concordatarie, non insista quasi mai in maniera efficace su quest’aspetto di tali norme, che invece necessita, a mio parere, di un esame più attento, anche perché nessun’altro rivela altrettanto bene la natura degli attuali rapporti tra Stato e  Chiesa  in Italia.
   Credo, quindi, che per affrontare più concretamente la questione valga la pena porci le seguenti domande: perché in Italia non si prende seriamente in considerazione la possibilità d’insegnare nella scuola pubblica “storia delle religioni” e di affidare tale insegnamento a dei laureati in tale disciplina? Perché nemmeno quelle forze politiche che insistono spesso sulla necessità di favorire un’integrazione degli immigrati – che seguono molto spesso religioni diverse da quella cattolica – non si fanno promotrici di una simile iniziativa?
   Forse alcuni pensano che queste domande pongano problemi inesistenti, o comunque poco rilevanti, e che, in fondo, nella scuola italiana le religioni siano, anche con la legislazione attuale, studiate e conosciute in misura adeguata, o comunque sufficiente. Ma alla luce della mia esperienza d’insegnante in oltre una decina di scuole superiori di varie regioni italiane, posso asserire con fondati motivi che raramente gli studenti delle scuole superiori conoscono le differenze tra le diverse fedi cristiane e tra le religioni monoteiste d’occidente, e che pochi sanno individuare cosa distingue queste ultime da altre religioni, come per esempio quelle orientali. Nelle scuole dove fino ad oggi ho insegnato queste differenze sono note solo ad una ristretta minoranza e raramente sono state apprese a scuola.
    Tale situazione è, a mio parere, piuttosto preoccupante, e lascia ancora più perplessi se si considera quanto una migliore conoscenza reciproca delle diverse religioni d’appartenenza – e quindi anche dei diversi sistemi di valori etici e civili ad esse connesse – potrebbe migliorare le relazioni umane tra  persone con storie culturali, religiose e sociali tanto diverse, come quelle che sono oggi presenti sul territorio nazionale.
    Il sospetto, però, è che la spiegazione di un simile fenomeno, e quindi anche della legislazione concordataria che lo rende possibile, nonché della scarsa incisività dei suoi critici, non sia difficile. Infatti l’insegnamento obbligatorio della “storia delle religioni”, affidato a docenti competenti e indipendenti da qualsiasi autorità religiosa (al contrario di quanto accade ora),  in fondo non gioverebbe a nessuno, o meglio, forse nessuno lo troverebbe di fatto – sebbene, credo, erroneamente - conveniente per la tutela dei propri interessi e della propria capacità d’influenzare in modo massiccio e sistematico l’opinione pubblica.
   Una simile soluzione può sembrare sconveniente alla Chiesa Cattolica, perché le toglierebbe parte dell’egemonia che attualmente le è concessa nella gestione della sensibilità religiosa dei cittadini, e in particolare di quella dei più giovani. Ma una soluzione del genere non sembra gradita nemmeno a quelle forze politiche che vorrebbero invece limitare l’influenza della religione sulla società civile, perché una maggiore e più articolata consapevolezza intorno a tali tematiche potrebbe far nascere nella popolazione una disaffezione per impostazioni teoriche e ideologiche a-religiose, o comunque critiche nei confronti di qualsiasi concezione religiosa della vita e della società.
    Infatti può sembrare senz’altro più conveniente - per impostazioni ideologiche di tipo materialista, darwinista o, più in generale, laicista - che il senso comune religioso sia confinato nell’ambito del cattolicesimo, e ciò per due motivi fondamentali: perché concedendo questo privilegio alla Chiesa Cattolica si può sempre sperare di ricavarne in cambio qualche vantaggio politico; e perché un approccio di tipo religioso più diffuso e variegato a questioni che hanno anche un rilievo politico potrebbe ridurre la stessa efficacia politica della propria proposta ideologica e/o politica. In altre parole, più semplicemente, l’attuale legislazione in materia permette di orientare la cittadinanza nel suo complesso, e le giovani generazioni in particolare, verso due direzioni complementari, che esauriscono nell’opinione pubblica il ventaglio delle possibilità su tali temi: o si è cattolici, oppure si è tendenzialmente atei, o agnostici, o scettici, e quindi idonei ad abbracciare ideologie e sistemi di pensiero che rispetto a quelli religiosi sono in competizione, o almeno lo sono per le loro supposte implicazioni politiche. In termini ancora più sintetici e schematici: permanendo le cose così come sono, la popolazione tenderà a identificare la religione col cattolicesimo, e chi non sarà portato ad accogliere la fede cattolica sarà pronto per accettare e assecondare ideologie che della religione hanno una concezione quanto meno riduttiva.
   In pratica, si può ritenere che l’attuale legislazione in materia convenga a tutti, sia alla Chiesa Cattolica e alle forze politiche che s’ispirano ai suoi valori, sia alle forze politiche più laiciste, che comunque, nell’attuale sistema politico bipolare, non possono rinunciare a intrattenere con la Chiesa buoni rapporti.
  Credo invece che sarebbe più giusto, da parte di tutte le componenti della società e della politica chiamate ad esprimersi e a deliberare su tali questioni, prendere atto che la vigente regolamentazione dell’insegnamento della religione nella scuola, oltre a limitare arbitrariamente il diritto dei cittadini di accedere ad un’informazione più completa, può produrre, nel breve periodo, vantaggi solo provvisori e illusori, che possono poi rivelarsi, nel medio e lungo periodo, dannosi e controproducenti per tutte le componenti culturali e religiose della società, nonché per la loro civile convivenza.
   Sarebbe quindi indice di una maggiore sensibilità liberale e democratica, ma anche di maggior senso di responsabilità e di onestà intellettuale il prendere in esame, da parte di tutte le forze politiche, la possibilità di introdurre nella scuola italiana lo studio non confessionale e comparato delle diverse religioni e della loro storia.