J. L. Borges e le possibilità letterarie della filosofia

di SERGIO ALFREDO SCIGLITANO

(Traduzione di Natale Locorotondo)

 

 

In questo scritto cercheremo di tracciare un breve percorso tra alcune evocazioni filosofiche borgesiane. Il percorso proposto non si svilupperà seguendo un ordine cronologico attraverso la biografia intellettuale di Borges in riferimento alle sue evocazioni filosofiche.

La scelta del termine “evocare” viene fatta tenendo presente il significato del verbo corrispondente in spagnolo.

In primo luogo si tratta di un verbo transitivo: “chiamare gli spiriti ed i morti, supponendoli capaci di presentarsi nel momento degli incantesimi e delle invocazioni”. In questo senso potremmo collocare l’evocazione borgesiana accanto a quella dei filosofi che lo hanno preceduto, dato che solo raramente Borges si è riferito ai filosofi contemporanei. In secondo luogo tale termine indica “portare qualcosa alla memoria o all'immaginazione” (RAE). L’evocazione di diverse filosofie alla memoria e all’immaginazione è stata per Borges una grande risorsa per la sperimentazione letteraria.

Servirebbe uno studio più approfondito per tentare di chiarire alcune delle filosofie che stanno alla base dell’opera di Borges. La seguente presentazione è una semplice descrizione della tematica che servirà ai lettori di Borges per entrare in questa suggestiva avventura.

Per dirla con le parole di Juan Nuño: “La filosofia in Borges é una specie di cosmogonia” (NUÑO, J. 1987, 30), dove mito, dottrina, poema, narrazione forniscono un’interpretazione dell’origine e della formazione dell’universo “secondo Borges”.

 

“Non sarebbe difficile, per esempio, stabilire paralleli tra Borges e Hume, Berkeley e Nietzsche (…) ma tali paralleli esigerebbero una semplificazione, come dire, una falsificazione dei filosofi citati e sarebbe come negare a Borges la sua originalità, che è l’originalità stessa di tutta la creazione letteraria” (GUTIÉRREZ GIRARDOT, R. 1959).

 

Nonostate questa riflessione, ci immergeremo nelle relazioni tra la letteratura borgesiana e le filosofie evocate. In poche parole, Borges ha delineato la sostanza di una potenziale autobiografia, relazionata alla tematica filosofica del tempo:

 

“Il tempo è la sostanza di cui son fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il Fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco. Il mondo disgraziatamente è reale; io, disgraziatamente sono Borges” (BORGES, J. L. 2005, 1089).

 

Le evocazioni borgesiane, delle più varie filosofie, furono realizzate con gran libertà, senza allacciarsi alla filosofia occidentale (che certamente conobbe, come si può vedere nella sua opera).

Negli ambienti intellettuali che Borges frequentò a Buenos Aires, la philosopia perennis non si radicò, anche se è certo che questa visione della filosofia aveva i suoi esponenti, non solo a Buenos Aires, ma anche in altre città argentine (CATURELLI, A. 1971).

 

Borges, durante gli anni della sua gioventù, studiò filosofia da autodidatta.

 

Si potrebbe insinuare che in una città cosmopolita come Buenos Aires (e anche tanto lontana dai grandi centri della cultura europea ed americana) permise un peculiare interstizio di sperimentazioni simboliche, che si produssero in vari ambiti culturali, come in teatro, in musica (il tango è una creazione di Buenos Aires), nelle arti visuali e nell’architettura: a Buenos Aires, giusto per fare un esempio, esiste un edificio chiamato Barolo, dove in chiave modernista ed eclettica l’architetto Mario Palanti evocò la Divina Commedia (VIÑUALES, G. 2004).

È opportuno dire che Buenos Aires è stata la meta per molti studenti latino-americani, in quanto era un centro attrattivo per le sue varie attività culturali ed anche perché l’università statale era ed è gratuita, grazie alla Riforma Universitaria del 1918 (SOLARI, M, H. 2006).

 

L’ultima grande stagione culturale argentina venne chiamata “Generación del 80”, di ispirazione positivista, con intellettuali ai livelli di Sarmiento (figura centrale della cultura argentina durante buona parte del XIX secolo) che Borges nominerà in varie occasioni (FERRARI, G.; GALLO, E. 1980).

Borges riprenderà di quegli anni la questione delle differenze tra la lingua spagnola e le varianti latino-americane (specialmente quella argentina) e le dedicherà alcuni testi.

Sarmiento, con un forte sentimento antispagnolo, sempre sottolineò la necessità di liberarsi dalla lingua della Penisola Iberica e nel 1848 scrisse: “(…) le lingue oggi ritornano ai propri ovili, al popolo, e dopo essersi rivestite per tanto tempo di vestiti ricamati nei bordi, dopo essersi lucidate per arringare i re e le corporazioni, si svestono di queste bordature per non urtare il popolo, al quale gli scrittori si rivolgono” (FRANCO, L. 1958,    20).

A Buenos Aires, verso i principi del XX secolo, molti letterati saranno pervasi dal modernismo: daranno il benvenuto al poeta Ruben Dario durante i giorni del boom economico della Nazione. Gli antecedenti della storia letteraria argentina sono troppo pochi per rendere conto della transizione che si produce fra la fine del XIX secolo ed il principio del XX secolo.

In questa approssimazione non c’è tempo per soffermarsi sulla tematica degli antecedenti letterari che hanno potuto influenzare la sperimentazione estetica borgesiana. È consigliabile consultare il testo di Martin Prieto per farsi un’infarinatura riguardo la storia letteraria argentina (PRIETO, M. 2006).

 

Dopo il suo primo viaggio in Europa, insieme ai genitori, trovò diffuso, al suo ritorno a Buenos Aires, il movimento letterario spagnolo denominato “ultraismo”. In un articolo della Revista Nosotros, Borges sottolinea l’importanza che in questa “nuovissima estetica” occuperà la metafora (BORGES, J. L. 1921).

Durante i primi anni della sua attività letteraria, Borges affermò:

 

“Il periodo dal 1921 al 1930 è stato un periodo ricco di attività per me, ma forse molte furono avventate e senza senso. Scrissi e pubblicai sette libri: quattro di saggi e tre di poesia. Fondai anche tre riviste e collaborai con altre dodici pubblicazioni, tra cui La Prensa, Nosotros, Inicial e Síntesis. (…) Io scrivevo che noi argentini, nel nostro uso della lingua, eravamo molto diversi dagli spagnoli. Tuttavia scrivevo (anche in modo più semplice) come per non farmi capire dagli spagnoli. Oggi credo che dobbiamo accentuare le nostre affinità linguistiche. Gli gnostici affermavano che l’unico modo per evitare un peccato era commetterlo per liberarsene. Nei miei libri di quegli anni, sembra che commisi la maggioranza dei peccati capitali letterali, alcuni di loro sotto l’influenza di un grande scrittore, Leopoldo Lugones, che oggi non posso far altro che ammirare. Questi peccati erano: scrittura preziosa, colore locale, una ricerca dell’inaspettato ed uno stile del XVII secolo. Oggi non mi sento colpevole di questi eccessi: questi libri furono scritti per altro. Fino a poco tempo fa, se il prezzo non era molto alto, io compravo gli esemplari che incontravo e li bruciavo” (MOLACHINO, J. R.; PRIETO, J. M. 1983,  107-108).

 

L’intellettualità di Buenos Aires ricevette durante i decenni del XX secolo la visita di tanti scrittori stranieri (delle più varie concezioni estetiche e politiche).

Bisogna dire che nel 1936 si fece a Buenos Aires la riunione del PEN club (Poet, Editor, Novelist) alla quale parteciparono Emil Ludwig, Stefan Zweig, Jules Romains, Jacques Maritain, Guiseppe Ungaretti, Filippo Marinetti, Enzo Ferrieri e altri stranieri; tra gli argentini: Arturo Capdevilla, Baldomero Fernández Moreno, Manuel Gálvez, Antonio Aita, Eduardo Mallea. La donna più importante che partecipò fu Victoria Ocampo.

Da qualche anno, Victoria Ocampo (che appartenne ad una famiglia benestante di Buenos Aires) era stata una figura importante nella sfera culturale di Buenos Aires nell’ambito privato ed editoriale; insieme a lei partecipava sua sorella Silvina, anch’ella scrittrice.

 

La scommessa su Victoria Ocampo fu, per la casa editrice Sur, una grande innovazione nell’ambito culturale di Buenos Aires, dato che oltre a dar spazio alle pubblicazioni di scrittori giovani come Borges, propiziò la traduzione di autori stranieri. Invitò figure importanti, come Rabindranath Tagore, Indira Gandhi, il musicista svizzero Ernest Ansermet (LANGERDORF, J. J. 2005), lo scrittore francese Roger Caillois, ecc.

Il francese Roger Caillois è stato a Buenos Aires dal 1941 al 1944 ed editò una rivista con pubblicazioni di Borges, di Eduardo Mallea, di Ernesto Sábato e di Victoria Ocampo: in poco tempo, questi scrittori furono introdotti in alcuni circoli letterari francesi. Caillois, dopo alcuni anni, divenne un grande divulgatore degli scrittori sudamericani della casa editrice Gallimard.

La fortuna di Borges in Francia aumentò grazie a numerose traduzioni, tra cui quelle di Maurice Blanchot, Paul de Man e Gérard Genet.

Più avanti, ci soffermeremo sulla relazione scritta da Michel Foucault su un testo di Borges.

 

Dal 1930 fino al 1945, per via del regime militare, scomparve l’interesse per la letteratura, e anche quello di far conoscere gli scrittori argentini nel mondo. Gli scrittori di Buenos Aires furono seguiti sempre più da un pubblico locale molto attento alle sperimentazioni letterarie.

Non è sbagliato dire che la fortuna di molti scrittori argentini di questi decenni (incluso Borges) si deve ad un importante attività editoriale, che non apparteneva alle politiche statali, ma alle iniziative intellettuali della società civile.

Ricordiamo anche che molte pubblicazioni e traduzioni, che non si potevano uscire in Spagna per la censura del governo di Franco, si fecero a Buenos Aires.

Nei primi decenni del XX secolo si crearono nella capitale argentina numerosi gruppi che rappresentavano il grande movimento editoriale ed anche i numerosi lettori di Buenos Aires. Pubblicarono su riviste di grandi tirature. Un caso importante fu quello della rivista Nosotros (ULLA, N. 1960).

Un altro dei gruppi letterari fu chiamato “Martinfierrismo” (si riunivano in via Florida). Ricardo Güiraldes, Ramón Gómez de la Serna, Guillermo de La Torre ed altri scrissero per questo gruppo letterario. Borges si identificava con loro per quanto riguarda l’innovazione formale. La letteratura era concepita secondo loro in termini estetici: le loro preoccupazioni erano stilistiche e le loro tematiche universali.

Un altro gruppo importante venne chiamato “Boero”. A questo gruppo appartenevano scrittori come Roberto Mariani, Leónidas Barletta, Gustavo Riccio, Lorenzo Stanchina, molti dei quali discendenti di famiglie italiane (DEVOTO, F. 2008) di idee politiche anarchiche, socialiste, comuniste, ed anche gli scrittori Álvaro Yunque, Emilio Soto, Israel Zeitlin. Secondo loro la letteratura serviva come strumento di denuncia politica ed erano legati a correnti letterarie realiste.

Questi gruppi si sciolsero quando ci fu il primo colpo di stato nel 1930, che depose il presidente democratico Hipólito Irigoyen. Ma alcuni scrittori come Borges e Yunque divennero sempre più importanti.

Si pensa che a Buenos Aires arrivarono tanti esiliati repubblicani spagnoli, molti dei quali intellettuali, come i casi dei filosofi José Ortega e Gasset, degli scrittori Ramón Gómez de la Serna, Rafael Alberti, ecc, e dello storico Claudio Sánchez Albornoz, presidente della “Repubblica Spagnola in esilio” che morì a Buenos Aires.

Durante il ventennio fascista, a Buenos Aires giunsero tanti esiliati della sinistra italiana.

Dal 1938 fino al 1948, arrivarono a Buenos Aires, a causa delle leggi razziali fasciste, gruppi di intellettuali ebrei italiani.

Ricordiamo i filosofi: Rodolfo Mondolfo (che morì a Buenos Aires) Renato Treves, Giovanni Turin; il linguista Benvenuto Terracini, lo storico della scienza Aldo Mieli, il matematico Beppo Levy, il fisico Andrea Levialdi, l’avvocato Dino Jarach ed altri (SMOLENSKY, E. M.; JARACH, V. V. 1999).

Borges visse in questa multietnica città, aperta alle più variate tendenze intellettuali.

 

In uno dei tanti racconti su Buenos Aires, Borges scrisse:

 

“Buenos Aires

E ora la città è quasi una pianta

Delle mie umiliazioni e di sconfitte;

Da questa porta ne ho visti tramonti,

Su questo marmo quanto ho atteso invano.

L’incerto ieri qui, l’oggi diverso

M’han fatto dono dei comuni casi

D’ogni destino umano; qui i miei passi

Tessono il non previsto labirinto.

Qui la mia sera di cenere aspetta

Il frutto che le deve la mattina;

Qui la mia ombra nell’uguale, vana

Ombra estrema si perderà, leggera.

Non ci unisce l’amore ma il timore

È questo forse che fa sì che l’ami.

(BORGES, J. L. 2004, 199).

 

Anche se Borges concepiva la letteratura come un’attività fondamentalmente estetica, non aderì a nessuna filosofia specifica (né occidentale né orientale) e anche non si sentiva rappresentato da nessuna delle religioni monoteiste.

 

Come scrive il traduttore italiano di Borges, Francesco Tentori Montalto,“Borges non permette un discorso critico continuo, una interpretazione consequenziale della sua opera; direi anzi che li contraddice incesantemente incessantemente e forse li sdegnerebbe o li avrebbe a noia”. (TENTORI MOLTALTO, F. : BORGES, J. L. 1970, 8).

 

Questa è una guida utile divisa in quattro tappe che ci servirà per addentrarci nello sviluppo dell’estetica borgesiana:

 

1)      le opere degli anni ‘20 fatte di poesie e saggi, con tematiche letterarie e metafisiche importanti;

2)      una seconda fase di prosa narrativa e saggi di uno sviluppo sofisticato e filosofico;

3)      la manifestazione più chiara di una metafisica personale e le creazioni artistiche di tali motivi metafisici;

4)      da cieco: creò piccole opere letterarie e narrative carenti dei conceits metafisici anteriori. (VALDÉS, R. A. 1975).      

 

Borges non si identificò con l’importante movimento psicoanalitico che si sviluppò a Buenos Aires, durante tutto il secolo XX.

Esiste un interessante articolo di Giovanna Bartucci in cui analizza alcune associazioni tra la psicoanalisi e la scrittura borgesiana. (BARTUCCI, G. 2002).

Presentiamo solamente due di queste invenzioni borgesiane, in cui si interagiscono la vita della veglia e la vita dei sogni:

 

DREAMTIGERS

 

Nell’infanzia esercitai con fervore l’adozione della tigre: non la tigre di pelo cangiante dei giuncheti vaganti del Paranà, e del disordine dell’Amazonia, ma la tigre striata, asiatica, reale, che solo i guerrieri possono affrontare, sopra un castello sul dorso di un elefante.

Solevo indugiare senza fine davanti ad una delle gabbie dello Zoo; apprezzavo le vaste enciclopedie ed i libri di storia naturale, per lo splendore delle loro tigri. (Ricordo ancora quelle figure, io che non posso ricordare senza errore la fronte o il sorriso di una donna.).

Trascorse l’infanzia, declinarono le tigri e la passione per esse, ma son rimaste nei miei sogni. In quello strato sommerso o caotico dominano ancora, in questo modo: addormentato, mi distrae un sogno qualsiasi e ad un tratto so che è un sogno. Soglio pensare allora: questo è un sogno, una pura diversione della mia volontà, e giacché il mio potere è illimitato, susciterò una tigre.

Oh, inabilitá! Giammai i miei sogni sanno generare la desiderata fiera. Appare, sì, la tigre, ma debole o smagrita, o con impure variazioni di forma, o d’una grandezza inammissibile, o in una visione fugace, o somigliante ad un cane o ad un uccello.

(BORGES, J. L. 2005, 1109).

 

Nello Zahir, che è una grande innovativa interpretazione del mondo musulmano, Borges scrisse:

 

“Non percepirò più l’universo, percepirò lo Zahir. Secondo la dottrina idealista, i verbi vivere e sognare sono rigorosamente sinonimi; di migliaia di apparenze, me ne rimarrà una; da un sogno molto complesso, passerò ad uno molto semplice. Altri sogneranno che sono pazzo; io, lo Zahir. Quando tutti gli uomini della terra penseranno, giorno e notte, allo Zahir, quale sarà il sogno e quale la realtà, la terra o lo Zahir? (BORGES, J. L. 2005, 856).

 

Il padre di Borges presentò al figlio l’enigmatico scrittore Macedonio Fernández, che lascerà una traccia indelebile in Borges. Egli ricorderà Fernández con grandi lodi.

Questo è uno dei testi più famosi di Fernández, dove si può trovare una certa somiglianza con Borges:

 

“Occhi aperti non sono la veglia né tutta la veglia.

Alle cose della nostra anima veglia chiama sogni. Però c’è di questa anche un risveglio che lo fa in sogno: la critica dell’io, la mistica (…)”. (FERNÁNDEZ, M. 2004, 131).

 

In un memorabile prologo che Borges fece per l’opera di Macedonio Fernández, scrisse:

 

“Io ho ereditato da mio padre l’amicizia ed il culto di Macedonio Fernández. (…) L’essenza onirica dell’ Essere era uno dei temi preferiti di Macedonio (…). Ignoro quali affinità o divergenze ci rivelerebbe uno Studio comparato della filosofia di Macedonio rispetto a quella di Schopenhauer o di Hume; ci basti sapere che a Buenos Aires, negli anni Venti del nostro secolo, un uomo ripensò e scoprì alcune cose eterne”. (BORGES, J. L. 2004, 799-810).

 

Alcuni dei temi filosofici trattati da Borges sono stati prefigurati nell’opera di Macedonio Fernández. In un aneddoto, Macedonio Fernández racconta che fu invitato da Borges a cena, ma per dimenticanza o per distrazione non andò. Allora scrisse:

 

“Devi scusarmi per non essere venuto stanotte. Sono così distratto che mentre stavo andando a casa tua, mi sono ricordato di essere rimasto in casa mia”(FERNÁNDEZ, M. 1967).

 

Borges attinse ad alcune filosofie orientali: cinese, giapponese, induista e sufi.

In un’intervista, in riferimento alla cultura occidentale, affermò:

“La denominazione culturale occidentale è abbastanza relativa, perché questa cultura coinvolge il cristianesimo, che certamente è orientale, dato che non fu un’idea romana ma ebrea” (MONTECCHIA, M.    1975/1976).

 

Borges invocò sistemi filosofici e filosofi delle più varie tradizioni europee.

 

Le sue innovazioni filosofiche e storiche sono minate frequentemente con ironie di questo genere, che non fa altro che mettere in discussione dei luoghi comuni.

 

In una delle sue riflessioni, scrisse:

 

“Ho letto alcune storie della filosofia dell’India. Gli autori (inglesi, tedeschi, francesi, americani) sempre si stupiscono che per gli indiani dell’India la storia non abbia senso e per questo tutti i pensatori sarebbero contemporanei. Traducono le parole della filosofia antica al modo moderno di parlare della filosofia di oggi. Ma questo significa qualcosa di magnifico: conferma l’idea che uno crede nella filosofia o nella poesia, che le cose che furono belle possono essere ancora belle. Dico questo, anche se suppongo di essere completamente anti-storico (dato che evidentemente i significati e le connotazioni delle parole cambiano)” (BORGES, J. L. 2000, 136-137).

La lettura della filosofia orientale in chiave anti-storica non è un impedimento per entrare in essa, al contrario, nell’atteggiamento borgesiano ci immergiamo nel mondo orientale se tentiamo di provare un’esperienza estetica in se stessa.

 

Svalutando una lettura lineare, che si distende da un inizio fino ad una pienezza, pensiamo per caso alla denominazione degli studiosi della filosofia greca per designare i filosofi anteriori a Socrate come pre-socratici.

In questa prospettiva, la lettura storico-didattica, così praticata in occidente dai testi di storia della filosofia, non sarebbe comprensibile nelle filosofie orientali. Il peso della storiografia filosofica occidentale sta agli antipodi delle pratiche filosofiche orientali, dove non c’è interesse per il tempo concepito in forma lineare.

 

Una delle esposizioni che Borges lesse in tedesco sul buddismo gli suggerì una critica suggestiva pubblicata sulla rivista Sur. In questo articolo, Borges critica il paragone che lo studioso Hardy realizza tra la personalità di Buddha e Gesù: “Questo paragone è vizioso, non solo per le differenze culturali e nazionali che dividono i due maestri, ma anche per il concetto stesso della personalità che conviene tanto ad uno che all’altro” (BORGES, J. L. 1999, 35-40).

Questa posizione contrasta con la lettera in cui Cesare disse di aver messo in libertà i suoi avversari politici, ma rischiando nello stesso tempo una ritorsione nel caso in cui avessero ripreso le armi (perché niente agogno più che essere come sono e che essi siano come sono)”. Più in avanti espone l’importanza della negazione dell’io e la predicazione del suo annullamento.

Inoltre dice che “León Bloy o Francis Thompson sarebbero stati per Buddha esempi di uomini fuori controllo, non solo per credere di meritare attenzioni divine, ma per la loro finalità di sviluppare, dentro un linguaggio comune, un piccolo e vano dialetto”.

Nel testo “Cos’è il Buddismo”, che Borges scrisse insieme alla scrittrice Alicia Jurado, segnala che la longevità di questa religione (che è filosofia e allo stesso tempo sistema metafisico) è stata la tolleranza e la non imposizione delle sue verità.

Riguardo all’esistenza storica di Buddha, Borges sottolineò che per i credenti di Buddha, questo non ha importanza, dato che la cosa più importante è stata sempre seguire la dottrina.

Non è sbagliato non credere nell’esistenza storica di Buddha, in quanto nella mentalità buddista non ha importanza conoscere la vita delle grandi personalità della storia.

Uno dei concetti importanti di Borges, riguardo questa filosofia, è la questione dell’etica: il buddismo pretende di creare un uomo giusto.

Nel testo si nota una dettagliata esposizione di diverse varianti del buddismo ed in più si dispiega un numero considerevole di studiosi delle questioni orientali, che sottolineano l’interesse di Borges per gli orientalisti europei e per queste filosofie.

 

(BORGES, J. L.; JURADO, A. 1976). Il testo venne rielaborato da Borges per essere presentato in una delle sette conferenze che fece nel Teatro Coliseo di Buenos Aires nel 1977. Dopo venne pubblicato nell’opera “Siete noches”.

 

In una delle interviste, Borges affermò:

 

“Sono stato anche interessato al sufismo, questo ha influito in me, ma non so fino a dove. Ho studiato queste religioni, o queste filosofie orientali, come possibilità per il pensiero o per la condotta, o le ho studiate dal loro punto di vista immaginativo per la letteratura”. (GUIBERT, R. 1986, 335).

 

Questa dichiarazione personale riguardo lo studio di queste filosofie come possibilità per il pensiero (non come possibilità per la filosofia) potrebbe ampliarsi per tutti i sistemi filosofici che evocò.

 

Il tema del tempo (diventare e non diventare) venne molto affrontato nelle trame borgesiane. In questa “versione”, che presentò per una pubblicazione del libro del I King (tradotto in spagnolo), scrisse:

 

Per una versione del “I King

 

L’avvenire è altrettanto irreparabile

Quanto il rigido ieri. Non esiste cosa

Che non sia una lettera muta

Dell’eterna scrittura indecifrabile

Il cui libro è il tempo. Chi vi si allontana

Dalla propria casa vi è già tornato. La Nostra vita

È il sentiero futuro e già percorso.

Niente ci dice addio. Niente ci lascia.

Non cedere. L’ergastolo è buio,

La dura trama è d’incessante ferro,

Ma in qualche cantuccio della tua cella

Può esserci una svista, una fenditura.

La Strada è fatale come la freccia,

Ma nelle crepe sta in agguato Dio.

 

(BORGES, J. L. 2004, 1011).

 

L’analisi che Borges fa del tempo è sempre paradossale, dato che è vista come un presente eterno, e questo presente è un immagine dell’eternità. Il concetto che tanto è caro a Borges è quello che evocato dalla Bhavacakra del buddismo (l’immagine della ruota che rappresenta i livelli o sfere dell’esistenza) che ci rimette sempre nel punto di partenza (dove si nega in questo modo l’esistenza del tempo) rinviandoci così alla nozione dell’eternità del presente.

In altre delle sue evocazioni del tempo, potremmo associare a Borges non solo le filosofie orientali, ma anche alcune delle formulazioni della disciplina fisica.

Nel “Il Giardino dei sentieri che si biforcano” il sinologo Stephen Albert spiega al suo ospite il romanzo dei suoi antenati:

 

“In tutte le opere narrative, ogni volta che s’è di fronte a diverse alternative ci si decide per una e si eliminano le altre; in quella del quasi inestricabile Ts’ui Pen, ci si decide -simultaneamente- per tutte.

Si creano, così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano (…). Talvolta, i sentieri di questo labirinto convergono: per esempio, lei arriva in questa casa, ma in uno dei passati possibili lei è mio amico, in un altro caso è mio nemico” (BORGES, J. L. 2005, 698-699).

 

In questa strana genealogia famigliare sarebbe attinente ricordare la formula della Meccanica Quantica chiamata come il metodo dell’integrazione funzionale, dove i sistemi delle particelle oppure una sola, si riuniscono in un punto (Von der Weid, J. N. 1994).

In questa prospettiva abbiamo una simultaneità di presenti, concetto evidenziato da Borges.

 

Queste sono alcune dei richiami proposti da Borges di diversi sistemi filosofici.

I temi più importanti della sua letteratura sono i libri e le biblioteche. La biblioteca della casa della sua famiglia aveva numerosi libri in spagnolo ed in inglese.

Tra i suoi ricordi dell’infanzia, Borges evocherà con frequenza la biblioteca di suo padre.

Jorge Guillermo Borges è stato un avvocato argentino, figlio di un argentino ed di un’inglese. Inoltre, insegnava psicologia in inglese, in un istituto privato.

Nella sua famiglia si parlava spagnolo ed inglese. I suoi scrittori preferiti furono: Berkeley, Hume, William James, Keats, Swinburne.

Jorge Luis Borges iniziò a studiare gli orientalisti Lane, Burton, Payne grazie ai libri in inglese della biblioteca paterna.

Sua madre, Leonor Acevedo, figlia di un militare, era una grande lettrice e parlava anch’ella in inglese sia con il marito che con i figli.

Borges, in alcune interviste disse che la madre aveva tradotto alcuni testi dall’inglese allo spagnolo.

 

Questi fattori lasciarono un’impronta profonda nel suo codice linguistico, per via delle due lingue molto diverse. La sua innovazione estetica, pur avendo ricevuto una forte influenza della lingua inglese, si dovrebbe leggere in una forma particolare dello spagnolo, il “rioplatense”, cioè quello di Buenos Aires, sia nel modo di parlare che di quello scritto.

Il modo di parlare degli argentini è stato influenzato dalla grande ondata migratoria iniziata dalla fine del XIX secolo e durata fino ai primi anni del XX secolo.

Gli immigrati italiani continuarono a parlare in dialetto, come anche gli immigrati arabi, ebrei, irlandesi, gallesi, inglesi, slavi e russi.

Non possiamo non tener conto anche degli spagnoli di origini basche, galiziane e catalane.

A Buenos Aires non fu così importante come nelle altre province l’impatto con le lingue dei popoli indiani, dato che le zone con più indiani, cioè Patagonia e Chaco, furono conquistate dopo.

Questi substrati linguistici, che modificarono molto lo spagnolo, non si dovrebbero sottovalutare nella sperimentazione borgesiana.

L’attività letteraria di Borges si arricchì anche grazie alle sue traduzioni dall’inglese allo spagnolo. Nelle sue traduzioni egli, pur rispettando al massimo la grammatica inglese, usò parole tipiche argentine affinché gli argentini capissero l’argomento perfettamente.

Secondo Franco Rafael Olea, il caso borgesiano fu una “infedeltà creatrice e felice” (OLEA, F.                                       2001).

Tanti ricercatori si dedicarono a studiare Borges come traduttore (LABRUM, M. B. 1998). Essi evidenziarono le “infedeltà felici” di Borges che traduceva “culturalmente” per i lettori argentini. Questo modo di tradurre latinoamericano, di “contaminare lo spagnolo della Spagna” era stato anticipato da Domingo Faustino Sarmiento (ALTAMIRANO, C.; SARLO, B. 1994).

 

Sul modo di scrivere di Borges, Italo Calvino considerò un’arte lo “scrivere breve” ed inoltre affermò:

 

“Riesce ad inserire in testi di pochissime pagine tante suggestioni poetiche e di pensieri: fatti narrati o suggeriti, aperture vertiginose sull’infinito. E idee, idee, idee.

(…) Questo è il miracolo stilistico di Borges, senza uguali nella lingua spagnola, del quale solo Borges possiede il segreto. Leggendo Borges ho avuto tante volte la tentazione di fare una poetica dello ‘scrivere breve’, elogiando la sua supremazia sullo ‘scrivere lungo’(…). Mi limiterò per ora a dire che la vera vocazione della letteratura italiana, che conserva i suoi valori nel verbo o nella frase, in cui ogni parola è insostituibile, si riconosce di più nello ‘scrivere breve’ che nello ‘scrivere lungo’ ” (CALVINO, I. 1997, 243-244).

 

Nel 1951, Borges pubblicò nel Diaro La Nación, un articolo dal titolo: “Del Culto De Los Libros”. In questa riflessione Borges fa riferimento ai seguenti filosofi: Pitagora, Giamblico, Platone, Clemente di Alessandria, San Agostino, Avicenna e Francis Bacon, esaminando quel percorso del processo mentale che finì con il predominio della parola scritta sulla parola parlata.

(BORGES, J. L. 2005, 1010-1015). In più, si riferì ai libri sacri dei tre monoteismi e a San Ambrogio di Milano, Thomas Browne Carlyle, León Boy e Mallarmé.

 

Il testo termina affermando:

 

“Il mondo, secondo Mallarmé, esiste per giustificare un libro; secondo Bloy, siamo versetti o parole o lettere di un libro magico, e codesto libro incessante è l’unica cosa che è al mondo: è, per meglio dire, il mondo”.

 

In riferimento ai testi della letteratura classica, Borges affermò:

 

“Classico non è un libro (lo ripeto) che necessariamente possiede questi o quegli altri meriti; è un libro che le generazioni degli uomini, spinte da diverse ragioni, leggono con previo fervore e con una misteriosa lealtà” (BORGES, J. L. 2005, 1092).

 

In un’intervista Borges dichiarò:

 

“Non sono un filosofo e neanche un metafisico; quello che ho fatto è sfruttare o esplorare (è una parola più nobile) le possibilità letterarie della filosofia (…). Non ho nessuna teoria del mondo. In genere, per come ho usato i diversi sistemi metafisici e teologici per fini letterari, i lettori hanno creduto che io professassi questi sistemi, quando realmente l’unica cosa che ho fatto è usarli per questi fini, niente più. In più, se mi dovessi definire, mi definirei come un agnostico, cioè, una persona che non crede che la conoscenza sia possibile” (VÁSQUEZ, M. E: 1977).

 

Malgrado questo agnosticismo, Borges invocò alcune antinomie scientifiche e utilizzò frequentemente citazioni matematiche.

Forse si potrebbero associare queste antinomie logico-aritmetiche al teorema di Kurt Gödel. Nel suo teorema, Gödel dimostrò la possibilità di provare la natura non contraddittoria di un sistema formale senza uscire dalle proprie idee, sempre e quando queste idee si inseriscono ordinatamente in un sistema coerente, capace di esprimere tutto il formalismo dell’aritmetica.

In questa specie di gioco logico-aritmetico, Borges ci regalò questa sottigliezza al servizio di un artificio metafisico:

 

Argumentum ornithologicum

 

Chiudo gli occhi e vedo uno stormo di uccelli. La visione dura un secondo o forse meno; non so quanti uccelli ho visto. Era definito o indefinito il loro numero? Il problema implica quello dell’esistenza di Dio.

Se Dio esiste, il mio numero è definito, perché Dio sa quanti furono gli uccelli. Se Dio non esiste, il numero è indefinito, perché nessuno poté contarli. In tal caso, ho visto meno di dieci uccelli (per esempio) e più di uno, ma non ne ho visti né nove né otto né sette né sei né cinque né quattro né tre né due. Ho visto un numero di uccelli che sta tra il dieci e l’uno, e che non è nove né otto né sette né sei né cinque, eccetera.

Codesto numero intero è inconcepibile; ergo, Dio esiste.

(BORGES, J. L. 2005,    1119).

 

Le prime letture filosofiche che colpirono Borges furono quelle di Schopenhauer.

 

In un suggestivo studio, il ricercatore italiano Roberto Paoli, (PAOLI, R. 1986) studiò questa relazione intellettuale. Paoli realizzò varie supposizioni di come Borges conobbe il filosofo tedesco: o grazie alla biblioteca del padre, leggendo Carly,oppure Macedonio Fernández Moreno. In questo articolo si segnalano anche paragrafi dell’opera del filosofo tedesco in relazione con i testi dello scrittore argentino. Il caso più importante è quello del testo “El tigre”.

 

Presento il testo di Borges:

 

La Tigre

 

Andava e veniva, delicata e fatale, carica di infinita energia, dall’altro lato delle salde sbarre e tutti la guardavamo.

Era la tigre di quel mattino, a Palermo, e la tigre dell’Oriente e la tigre di Blake e di Hugo e Shere Khan, e le tigri che furono e che saranno allo stesso tempo la tigre archetipa, poiché l’individuo, nel suo caso, è tutta la specie. Pensammo che era sanguinaria e bella. Norah, una bambina, disse:  è fatta per l’amore.

(BORGES, J, L. 2004,    1049)

 

Le frasi di Schopenhauer sembravano avere un eco prolungato nelle idee borgesiane e sono sovente reperibili nella sua opera: i limiti tra la veglia ed il sonno sono sfumati; la realtà è più illusoria che reale; la realtà del mondo degli uomini e delle cose sono fittizie. Potremmo dire che Borges elogiò i percorsi che Schopenhauer propose per liberarsi dal mondo fenomenico attraverso l’etica, l’arte e l’ascetismo.

Un’altra fascinazione che Borges condivise con il filosofo tedesco fu quella del buddismo e la sua concezione della soppressione della personalità e della volontà.

Si può vedere Borges anche come uno scrittore che ha molte affinità con la corrente filosofica del nominalismo. Lo studioso Jaime Rest (REST, J. 1976) segnala per esempio le affinità di Borges con Guillermo de Ockham e David Hume.

Per Rest, Borges è un grande critico del linguaggio e in questo senso ha tanti punti in comune con  filosofi come Carnap, Russell e Wittgestein. Nella sua argomentazione, Rest sostiene che Borges ci induce ad un “silenzio privilegiato” (il silenzio dei mistici), che è il silenzio che si impone di fronte alla realtà extralinguistica. In questa dimensione il linguaggio non è un mezzo adeguato per rivelare la natura della realtà. Credo opportuno citare qui il filosofo Adriano Fabris: “(...) il primo e più semplice atto che istituisce un rapporto con la natura, il suo stesso nominarla, é quello che la pone a distanza e ne marca l´indicibilità. Salvo poi tentare, sempre e comunque, di trasformare questa distanza in rapporto” (FABRIS, A. 2002,  141-142).

 

Nello scritto dal titolo “Ruiseñor de Keats”, incluso in “Otras Inquisiciones”, Borges dopo aver analizzato i commenti che i critici letterari inglesi fecero a questo testo, conclude con queste suggestive reinterpretazioni filosofiche:

 

“Coleridge osserva che tutti gli uomini nascono aristotelici o platonici. Gli ultimi sentono che le classi, gli ordini e i generi sono realtà; i primi che sono generalizzazioni; per questi, il linguaggio non è altro che un approssimativo gioco di simboli; per quelli è la mappa dell’universo. Il platonico sa che l’universo è in qualche modo un cosmo, un ordine; tale ordine, per l’aristotelico, può essere un errore od una finzione della Nostra conoscenza parziale. Attraverso le latitudine e le epoche, i due antagonisti immortali cambiano di lingua e di nome: uno è Parmenide, Platone, Spinoza, Kant, Francis Bradley; l´altro, Eraclito, Aristotele, Locke, Hume Williams James. Nelle ardue scuole del Medioevo, tutti invocano Aristotele, maestro dell’umana ragione (Convivio, IV, 2), ma i nominalisti sono Aristotele; i realisti Platone.

Il nominalismo inglese del secolo XIV risorge nello scrupoloso idealismo inglese del secolo XVIII; l´economia della formula di Occam, entia non sunt multiplicanda praeter neccesitatem, permette o prefigura il non meno tassativo esse est percipi.

Gli uomini, disse Coleridge, nascono aristotelici o platonici; della mente inglese è dato osservare che nacque aristotelica. Il reale, per quella mente non sono i concetti astratti, ma gli individui; non l’usignolo generico, ma gli usignoli concreti. È naturale, forse inevitabile, che in Inghilterra non sia compresa rettamente l’Ode ad un usignuolo.

Nessuno veda riprovazione o disdegno nelle parole che precedono. L’inglese rifiuta il generico perché sente che l’individuale è irriducibile, inassimilabile e senza eguale. Uno scrupolo etico, non un’incapacità speculativa, gli impedisce di operare con astrazioni, come i tedeschi. Non capisce l’Ode ad un usignuolo; codesta importante incomprensione gli permette di essere Locke, di essere Berkeley e Hume, e di redigere, settant’anni fa, gli inascoltati e profetici avvertimenti dell’individuo contro lo Stato.

L’usignuolo, in tutte le lingue del mondo, gode di nomi melodiosi (nightingale, nachtigall, ruiseñor), come se gli uomini istintivamente avessero voluto che questi non demeritassero per il canto che li meravigliò. A tal punto lo hanno esaltato i poeti, che ora è un poco irreale, meno affine alla calandra che all’angelo.

 

Dagli enigmi sassoni del libro di Exeter (“io antico cantore della sera, reco ai nobili gioia nelle ville”) alla tragica Atlanta Swinburne, l’infinito usignuolo ha cantato nella letteratura inglese; Chaucer e Shakespeare lo esaltano, e così Milton e Matthew Arnold, ma a John Kaets uniamo fatalmente la sua immagine, come a Blake quella della tigre” (BORGES, J. L. 2005,  1018-1019).

 

Secondo Rest, Borges realizza interessanti “giochi linguistici”. Giochi dall’elevato contenuto erudito ed estetico, dove le sue interpretazioni filosofiche godono di tanta libertà.

Concediamo la congettura che per Borges le dispute filosofiche, che si rinnovarono incessantemente attraverso la storia della filosofia, sono variazioni di temi ricorrenti a modo di giochi, giochi che fertilizzarono nel suo caso personale il campo della sua peculiare sperimentazione poetica.

La ricercatrice Gabriela Massuh (MASSUH, G. 1980), affermò che in Borges si riconosce un’estetica del silenzio ed una riflessione riguardo l’efficacia comunicativa del linguaggio, correlando Borges agli scrittori Paul Valery, Paul Celan e T.S. Elliot.

In questa prospettiva il linguaggio è limitato, in quanto non può superare la propria incapacità per rivelare la natura della realtà.

 

Nella sperimentazione “Il Golem”, Borges invocò la filosofia platonica, il nominalismo, l’ibridazione con la cabala ebraica ed i giochi linguistici.

È nella lingua (e nell’ibridazione di diverse tradizioni culturali) dove si sostituisce l’orizzonte nel circoscrivere tutta la nostra relazione con il mondo (soggettivo ed oggettivo):

 

Il Golem

 

Se è vero (come  nel Cratilo è detto)

Che l´archetipo della cosa è il Nome,

Nella parola rosa è già la rosa

E il Nilo nelle lettere di Nilo.

 

Ci sarà, di vocali e consonanti,

Un terribile Nome, che l’essenza

Di Dio ha cifrato e che l’Onnipotenza

Serbi in lettere e sillabe precise.

 

Nel Giardino lo seppero le stelle

Ed Adamo. Poi il peccato e la sua ruggine

L´han cancellato (dice il cabalista)

E le generazioni l´han perduto.

 

Il candore e gli artifici dell’uomo

Non hanno fine. Sappiamo che un tempo

Il popolo di Dio cercò quel Nome

Nelle veglie e nelle magie dei ghetti.

 

Non al modo di altre che una vaga

Ombra insinuano nella vaga storia

È verde ancora e viva la memoria

Di Leon Giuda, rabbino di Praga.

 

Ansioso di sapere ciò che Dio

Soltanto sa, si dette a mutazioni

Di lettere e a complesse variazioni

E disse alla fine il Nome che è la Chiave.

 

La porta, l’Eco, l’ospite e il Palazzo

Su un fantoccio che avea con lente mani

Foggiato, per insegnarli gli arcani

Di quelle Lettere e di Tempo e Spazio.

 

Sollevò il simulacro i sonnolenti

Occhi e gli apparvero forme e colori

Che non intese, perduti i rumori

E tentò timorosi movimenti.

 

Gradatamente fu (come noialtri)

Prigioniero della rete sonora

Di Prima, Poi, Ieri, Frattanto, Ora

Destra, Sinistra, Io, Tu, Costoro, gli Altri.

 

(Il cabalista che fece da nume

La mostruosa creatura chiamò Golem; ….

Verità sono che tramanda Scholem

In dotte pagine del suo volume)

 

Gli spiegava il rabbino l’universo

(Questo è il mio piede, questo il tuo, la corda)

E ottenne, in capo agli anni, che il perverso

Spazzasse almeno la sua sinagoga.

Ma forse, s’era annidato un errore

Nella grafia o pronuncia di quel Nome;

Ché nonostante l’insigne magia

Non imparò a parlare il quasi uomo.

 

I suoi occhi, non d’uomo ma di cane

E anzi più che di cane di cosa,

Seguivano il rabbino per l’incerta

Penombra delle stanze di quel carcere.

 

Qualcosa di anormale era nel Golem,

Giacché al suo passo il gatto del rabbino

Si nascondeva. (Non lo dice Scholem,

Ma io attraverso il tempo l´indovino).

 

Alzando anch’egli a Dio mani filiali

Le devozioni del suo Dio copiava

O, stolido e ridente, si curvava

In concave riverenze orientali.

 

Lo guardava il rabbi con tenerezza

E orrore. Come ho potuto (si disse)

Dar vita a questo tormentoso figlio

Lasciando l´inazione, che é saggezza?

 

Perché ho aggiunto alla già infinita serie

Un altro simbolo? Perché alla vana

Matassa che in eterno si dipana

Ho dato ancora causa, effetto e pena?

 

Nelle ore di angoscia e luce vaga

Sul suo Golem lo sguardo soffermava.

Chi potrà dirci che cosa pensava

Iddio, guardando il suo rabbino a Praga?

 

1958

 

(BORGES, J. L. 2004,  65-69).

 

Continuando nella prospettiva delle relazioni tra il linguaggio e la realtà, potremmo tener presente quanto dice Gadamer, secondo cui “è proprio il gioco quello che si gioca”, con una certa autonomia, ne “Il Golem”; il gioco infatti include i giocatori, ma sembra qualcosa di onnipresente che precede i giocatori (GADAMER, H. G. 2012).

 

Nel 1980, Arturo Echavarría Ferrari (ECHAVARRÍA FERRARI, A. 1980) studiò l’influenza che ebbe l’opera del ricercatore tedesco Fritz Mauthner nell’innovazione linguistica di Borges.

Borges evocò Mauthner nell’articolo “La penúltima versión de la realidad”, in “Discuciones” (BORGES, J. L. 2005, 316-320), dove Francisco Luis Bernérdez pubblicò uno studio sulle speculazioni ontologiche del conte Korybski. Borges critica la forma universale dell’intuizione spazio-tempo che “impose” Kant, “dato che ci sono intere province dell’Essere che non lo necessitano”.

Più in là nella discussione, Echavarría sottolinea l’importanza di leggere Borges non come qualcuno che indaga la realtà, ma come chi si avvicina alla funzione e alla natura del linguaggio. In questa stessa prospettiva, tutto il linguaggio è di indole metaforica (qui la forte presenza di Mauthner) che tende a falsificare la realtà.

 

Anche in questa prospettiva, Rubén Sierra Mejía, ha studiato i rapporti tra la filosofia analitica e la semantica borgesiana (SIERRA MEJÍA, R. 1987).

 

Eraclito costituisce uno dei pensatori più complessi della storia della filosofia; il suo pensiero non ha cessato di offrire il campo alle suggestioni più diverse.

A Eraclito, Borges (BORGES, J. L. 2004,  264-265) dedicò questi versi:

 

Eraclito

Il secondo crepuscolo.

La notte che penetra nel sonno.

La purificazione e l’oblio.

Il primo crepuscolo.

La mattina ch’è stata l’alba.

Il giorno che fu il mattino.

Il folto giorno che sarà la sera consunta.

Il secondo crepuscolo.

Quest’altra usanza del tempo, la notte.

La purificazione e l’oblio.

Il primo crepuscolo…

L’alba segreta nell’alba

Lo sgomento del greco.

Che trama è questa del sarà, dell’è, del fu?

Che Fiume questo

per quale corre il Gange?

Che fiume, la cui fonte è inconcepibile?

Fiume, codesto, che porta

via con sé miti spade?

È inutile che dorma. Il fiume corre

nel sonno, nel deserto, in scantinati.

Il fiume  mi rapisce, io sono il fiume.

Di labile materia fui costruito, di misterioso tempo.

È in me forse la fonte.

Forse dalla mia ombra

nascono i giorni, fatali e illusori.

 

Uno dei commenti più suggestivi sul racconto di Borges, continuando nella prospettiva delle relazioni tra il linguaggio e la realtà, lo fece Michel Foucault nella prefazione del libro “Le parole e le cose”.

Foucault si riferisce al testo “El idioma analítico de John Wilkins” che fa parte della serie borgesiana “Otras Inquisiciones”.

Il filosofo francese dichiarò letteralmente che il suo libro nacque dalla lettura borgesiana di quel testo.

Secondo Foucault, nella serie che presenta Borges ci troviamo davanti all’eterotopia (dove sfida tutte le possibilità grammaticali) e agli antipodi dell’utopia.

 

Borges dedica un articolo ironico all’omissione del nome dello studioso inglese John Wilkins dall’Enciclopedia Britannica. Quando Borges segnala le ambiguità, le ridondanze e le carenze del sistema della lingua inglese, realizza un’evocazione di un’enciclopedia cinese.

 

 

Questi sono alcuni frammenti dell’articolo:

 

“Ho comprovato che la quattordicesima edizione dell’Enciclopedia Britannica sopprime l’articolo dedicato a John Wilkins. L’omissione è giusta, se si ricorda la futilità dell’articolo (venti righe di mere circostanze biografiche: Wilkins nacque nel 1614, morì nel 1672, fu cappellano di Carlo Luigi, principe palatino; Wilkins fu nominato rettore di un collegio di Oxford, fu il primo segretario della Reale Società di Londra, ecc); è colpevole, se si considera l’opera speculativa di Wilkins. Questi abbondò in felici curiosità: lo interessarono la teologia, la criptografia, la musica, la fabbricazione di arnie trasparenti, il corso di un pianeta invisibile, la possibilità di un viaggio sulla luna, la possibilità ed i principi di un linguaggio universale (…). Se si tolgono le parole composte e le derivazioni, tutti gli idiomi del mondo (senza escludere il volapük di Johan Martin Schleyer e la romanica interlingua di Peano) sono ugualmente inespressivi (...).

Nell’idioma universale che Wilkins ideò a metà del secolo XVII (tentò quest’impresa nel 1664), ogni parola definiva se stessa.

Codeste ambiguità ricordano quelle che il dottor Franz Kuhn attribuisce ad una enciclopedia cinese che s’intitola Emporio celeste di conoscimenti benevoli. Nelle sue remote pagine è scritto che gli animali si dividono in

 

(a)     appartenenti all’Imperatore,

(b)    imbalsamati

(c)     ammaestrati

(d)    lattonzoli

(e)     sirene

(f)      favolosi

(g)     cani randagi

(h)     inclusi in questa classificazione

(i)       che s’agitano come pazzi

(j)      innumerevoli

(k)    disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello

(l)       eccetera

(m) che hanno rotto il vaso

(n) che da lontano sembrano mosche.

 

Una delle prevenzioni con le quali Borges ci avverte in questo articolo è quella dell’arbitrarietà di tutto l’ordinamento o classificazione.

Se ignoriamo che cosa sia l’universo, tutto l’ordinamento segue aggiungendo caos. È certo che anche nell’impossibilità di penetrare nelle designazioni divine dell’universo, si tracciano disegni umani, che sono provvisori, ma si può sospettare che non esista un universo nel senso organico ed unificatore che questo concetto designa.

In questa prospettiva, per Foucault “il linguaggio perde il suo posto di privilegio” (FOUCAULT, M. 2002, 8). La risata nervosa del filosofo francese sottolinea che “la mostruosità che Borges fa circolare dall’enumerazione consiste, al contrario, nel fatto che lo spazio comune dell’incontro si trova esso stesso tra le rovine. L’impossibile non è il vicinato delle cose, ma il luogo dove potranno essere vicine” (FOUCAULT, M. 2002, 2). È molto difficile accettare il concetto che esista un disordine peggiore di quello incongruente.

 

Il modo Borgesiano, che modo di pensare è? Si potrebbe dedurre che la sua letteratura sia un modo di pensare?

Riguardo la prima domanda, potremmo rispondere ipotizzando che il suo modo di pensare fu particolarmente “irriverente”.

 

Borges si domandò:

 

“Qual è la tradizione argentina? Credo che possiamo rispondere facilmente e che non c’è problema nella domanda. Credo che la nostra tradizione è tutta la cultura occidentale, e credo inoltre che abbiamo diritto a questa tradizione, e anche maggiore di quello che possano avere gli abitanti di una qualsiasi nazione occidentale.

(…) Credo che noi argentini, i sudamericani in generale (…) possiamo adoperare tutti i temi europei, adoperarli senza superstizioni, con un’irriverenza che può avere, e ha già, conseguenze fortunate.

Questo non vuole dire che tutti gli esperimenti argentini sono ugualmente felici; credo che questo problema della tradizione e di ciò che è argentino è semplicemente una forma contemporanea e fugace dell’eterno problema del determinismo. (…) Tutto ciò che noi scrittori argentini facciamo con successo appartiene alla tradizione argentina allo stesso modo che il fatto di trattare soggetti italiani appartiene alla tradizione inglese, per opera di Chaucer e di Shakespeare (BORGES, J.L. 2005, 420).

 

Questo modo “irriverente” di alcuni autori argentini di sviluppare temi propri della tradizione europea conduce verso limiti estremi con molta ironia, una straripante erudizione e tanta fantasia. È un modo irriverente di impadronirsi di temi e pensieri europei ed orientali per concludere con le più fantasiose combinazioni.

 

Sin fantasía es mucho el Dolor”, scrisse il pensatore di Buenos Aires Macedonio Fernández (FERNÁNDEZ, M. 2004,    132).

 

Da questi limiti fantastici, all’evocare Pitagora, Eraclito, Platone, Pascal o Schopenhauer, la condizione del pensiero borgesiano potrebbe concepirsi come paradossale, più vicina al dubbio socratico che alle certezze che ci hanno offerto i sistemi filosofici occidentali.

 

Borges uomo, Borges pensatore: “ma non si può pensare nessun uomo che non sia anche filosofo, che non pensi, appunto perché il pensare é proprio dell’uomo come tale” (GRAMSCI, A. 1997,    300). Borges, addetto alla metafisica, che non é morta, come hanno tentato di  sottolineare tanti filosofi del novecento. La metafisica, invece, é molto viva nel pensare borgesiano e ha suggerito al poeta rioplatense i suoi piú grandi passi estetici.

Borges un escritor en la orillas (SARLO, B. 1995) che é stato irreverente con i filosofi dell´antica Europa, e dell´antico Oriente, ha tentato felicemente un attegiamento di apprendimento attivo e molto fruttuoso. Tanti di noi siamo stati attirati verso lo studio della filosofia, leggendo i suoi passi.

Il pensiero borgeseano é una elaborazione poetica e culturale, fatta da un letterato che ha metabolizzato criticamente il pensiero di tanti altri, peró ancorato nelle proprie radici rioplatenses, e argentine.

Come ha sottolineato il filosofo Fabio Minazzi: “L´educazione al pensare favorito della riflessione filosofica (e dal suo studio) non deve quindi perdersi in una generalitá banale come l´insegnare a ragionare, ma deve invece ancorarsi alle forme specifiche di ragionamento via via elaborate dalle differenti culture” (MINAZZI, F. 2004,    145).

 

Si potrebbe dedurne un modo di pensare borgesiano, così come questi pensatori lo concepiscono: “nel livello di pensiero e nel campo della filosofia, Borges è legato ad un tipo di razionalità che con Welsch chiamiamo ragione trasversale o intreccio della ragione”. Welsch capisce che l’espressione “ragione trasversale” dev’essere interpretata alla luce della discussione critica del tema così come si sviluppa dall’antichità greco-romana fino al postmodernismo: non è un termine di ragione assoluta (…) che lo dichiara come assoluto e vuoto, ma come una traiettoria, un percorso, una ricerca che realizza la ragione. Si tratta di intrecci, superstizioni e di possibilità razionali in contaminazione pemanente. (DE TORO, A. 1992,  199-200).

 

Secondo la filosofa cilena Carla Cordua, Borges ha realizzato “una interpretazione estetica della filosofia” contrappósta alla “scuola teoretica, che hanno fatto i filosofi” (CORDUA, C. 1988).

 

Nei temi di Borges, non poteva mancare il tema della morte. Tra i tanti scritti riguardo a questo argomento argomento, ci soffermeremo su quello seguente:

 

 

Limiti

 

C’è un verso di Verlaine che non ricorderò più

C’è una Strada vicina ch’è vietata ai miei passi,

C’è una porta che ho chiuso sino alla fine del mondo.

Tra i libri della mia biblioteca (ecco, li guardo)

Ce n’è qualcuno che non aprirò piú.

Questa estate compirò cinquanta anni;

La morte mi logora, incessante.

 

Da Iscrizioni (Montevideo, 1923), di Julio Platero Haedo.

(BORGES, J. L. 2005, 1257).

 

Terminiamo questo percorso con uno dei suoi tanti paradossi, intrecci e superstizioni:

 

“Il pensiero più fugace obbedisce ad un disegno invisibile e può coronare, o inaugurare, una forma segreta. So che alcuni operavano il male affinché nei secoli futuri ne derivasse il bene, o ne fosse derivato in quelli passati…Visti in tal modo, tutti i nostri atti sono giusti, ma sono anche indifferenti. Non esistono meriti morali o intellettuali. Omero compose l’Odissea; dato un tempo infinito, con infinite circostanze e mutamenti, l’impossibile è non comporre almeno una volta, l’Odissea.

Nessuno è qualcuno, un solo uomo immortale è tutti gli uomini. Come Cornelio Agrippa, sono dio, sono eroe, sono filosofo, sono demonio e sono mondo, il che è un modo complicato di dire che non sono” (BORGES, J. L. 2005, 784).

 

 

 

 

 

 

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Sergio Alfredo Sciglitano

 

Breve nota bio-bibligrafica dell'autore:

Sergio Alfredo Sciglitano è nato a Bragado (provincia di Buenos Aires) il 6 maggio 1964 e abita a Neuquén, in Patagonia. Dopo gli studi liceali si è laureato in Storia, disciplina che attualmente insegna presso un liceo della città dove abita.

Successivamente ha seguito un corso post-laurea in Filosofia e Storia delle scienze.

Ha studiato italiano presso l’Università per stranieri di Perugia ed ha al suo attivo diverse pubblicazioni su temi letterari, storici e filosofici, alcuni dei quali tradotti in lingua italiana.