Verso una tana calda e buia

 

Il Sessantotto visto da dentro in Per misura d’igiene di Franco Petroni

 

“E se ci fosse davvero, l’inferno? No che non c’è. Non c’è nessun Dio e nessun Diavolo. Le favole sono favole, purtroppo; e la vita è la vita. Non esiste nessun vecchio saggio nella grotta sul monte; nessuna vecchina benefica nel folto della foresta. Non c’è nessuno a cui credere; nessuno a cui chiedere consiglio”. Per la protagonista e narratrice di Per misura d’igiene di Franco Petroni - recentemente riedito per l’editore Morlacchi (dopo una prima edizione per le edizioni "Il Lichene", nel 1995) - non ci sono, più in generale, buone ragioni per confidare o sperare in qualcosa che vada al di là della distruzione dell’esistente: perché questo è contaminato da un male radicale, da un difetto d’origine.

Come recita una bella canzone di Francesco de Gregori, anche la protagonista di queste pagine, come tanti suoi coetanei di allora e di oggi, è una figlia “senza domani”, con una pena nel cuore che non sa dire, per cui non pensa di poter trovare le parole, perché “tutto è un inganno”, perché “nessuno, se è onesto, può attribuire alla propria persona un valore maggiore di zero”.

Una simile posizione anticipa come una premonizione il nihilismo che di recente è stato individuato come una condizione peculiare della gioventù contemporanea; questo “ospite inquietante” – così lo ha definito Umberto Galimberti in un suo saggio - avrebbe potuto tuttavia, anche in quelle circostanze storiche e culturali, essere sviluppato in maniera più feconda per favorire una trasformazione interiore. Basti pensare, ad esempio, alla congerie di posizioni critiche rispetto agli stessi modelli valoriali presi di mira dal movimento contestatario che trasparivano da alcune filosofie e opere letterarie proprio negli anni immediatamente precedenti al Sessantotto e che erano state uno dei nutrimenti, più o meno diretti, della Beat Generation. Ma dopo i primi tempi di libertarismo e di autentica rivoluzione culturale, in cui le contaminazioni furono variegate e polifoniche, il movimento – specialmente in Europa, e particolarmente in Italia - s’irrigidì nell’assimilazione di un orizzonte ideologico preclusivo, partendo dal presupposto che condizione di ogni sviluppo e trasformazione fosse la distruzione, o comunque il superamento perentorio, dell’ordine socio-economico esistente.

Anche alla luce di queste considerazioni più generali, la rivisitazione del libro di Petroni conferma l’impressione che avemmo già alla sua prima lettura: che il Sessantotto sia stato, tra le altre cose, un caso di proiezione collettiva all’esterno, nella società e nella storia, di un nemico interno. Era infatti lì, nella società capitalistica, che doveva trovarsi, per la protagonista e narratrice come per quasi tutti i suoi compagni, l’origine di ogni male, di ogni disagio interiore, per l’impossibilità di affrontarlo in maniera diretta senza far ricorso a quella sorta di meccanismo proiettivo e riduttivo che forniva l’illusione di poterne estirpare le radici dal proprio vissuto.

Certo, il male si trova sempre anche all’esterno, nell’orizzonte del mondo e della società che avvolge le singole esistenze, ma lo spazio privato – quello stesso “privato” che in quegli anni veniva pur riconosciuto come implicitamente “politico” - veniva esautorato, contrariamente alle indicazioni di quei filosofi francofortesi che pur avevano contribuito a fornire le basi ideologiche del movimento, di ogni responsabilità propria, e quindi sottratto ad un riesame sincero, che prendesse cioè le mosse anche da una seria messa in discussione di quei paradigmi culturali che tendevano a incanalarlo in un vicolo cieco.

“L’odio di sé – scrive Adorno in Minima Moralia – è assoluta falsità”: forse per questo, per evitare questa contraddizione latente, molti protagonisti delle lotte e delle proteste di allora, o almeno quelli che le intrapresero in maniera più coerente e totalizzante, cercarono di spostare un tale odio verso l’esterno e la società, o almeno furono portati a cogliere lì, fuori di sé, la sua origine effettiva, quasi ritenendo che nulla di positivo potesse scaturire da uno sviluppo della propria dimensione personale in quanto tale, e ciò nonostante che in quegli anni, specialmente con l’esperienza del femminismo, proprio questa iniziasse ad essere sondata in maniera aperta e sistematica.

La dimensione interiore dei personaggi di questo romanzo – che Petroni immagina con incalzante coerenza psicologica ed efficacia letteraria, al tempo stesso con rigore analitico e implicita pietas - risulta così priva di elasticità e prospettiva storica, di ogni scenario evolutivo, di ogni capacità di trasformazione autocritica, perché il nemico è già individuato, in base all’adozione di un modello teorico coerente quanto pervasivo, nelle contraddizioni insite in quel sistema capitalistico che erano ritenute in grado di contaminare anche i tratti più profondi di qualsiasi esistenza individuale. Così la narratrice racconta, in una sorta di diario lucido e inclemente nei confronti di sé e dello stesso movimento “rivoluzionario”, la sua vicenda personale, dalla quale emerge solo fugacemente la propensione a mettere in discussione lo scenario ideologico da cui trae alimento la sua stessa visione della propria vita e dei suoi rapporti interpersonali più significativi.

La tendenza di alcuni personaggi a utilizzare, con la tacita finalità di edificare una carriera gratificante sotto il profilo politico o accademico, quello stesso entusiasmo che aveva nutrito il movimento studentesco fin dai suoi primi momenti, conferma poi la natura impropria di molte di quelle motivazioni che tuttavia, fin quando erano state imperniate su un rinnovato anelito verso una maggiore giustizia e libertà avevano pur saputo fornire spunti per una trasformazione positiva del tessuto culturale e sociale in cui operavano.

Anche l’orizzonte vitale della narratrice finisce così con l’assumere un aspetto claustrofobico, protesa com’è all’azione per l’azione, a quella lotta politica senza esclusione di colpi che, nelle sue espressioni più radicali ed estreme, sarebbe poi sfociata nel terrorismo. La logica del sospetto di cui parla Ricoeur ha dunque occasione di trionfare in maniera radicale, e nonostante l’agnizione passeggera che per capire bisogna anche imparare ad amare - frase che, nonostante la sua retoricità apparente contiene un fondamento di verità che per qualche istante sembra cogliere di sorpresa la narratrice – prevale in lei una disperazione sorda, che pur riconoscendo in maniera lungimirante la circolarità di certe dinamiche infantili e narcisistiche di cui molti suoi compagni di lotta sono preda non è in grado d’immaginare una qualsiasi strategia d’uscita alternativa. Tutti, chi prima e chi dopo, sono infatti destinati ad accorgersi che la loro vita è “priva di valore”, e che l’unica prospettiva possibile è quella di farsi “martiri per davvero, senza riserve”. Anche la scrittura del suo diario, in questo contesto, finisce così col sembrarle un espediente per darsi forza, “per andare avanti autosufficiente e tetragona come un carro armato”, piuttosto che per conoscere meglio gli altri e se stessa e cogliere così, in maniera autocritica ed efficace, nella propria storia individuale e nella propria visione del mondo, non solo gli effetti reificanti che un’ideologia falsa e borghese aveva saputo istallarvi, ma anche la scintilla che sapesse trasfigurarli in maniera personale e intimamente persuasiva e propositiva.

Quando poi, verso la fine del romanzo, sul lago della propria esistenza sembra scendere un inverno mite e le giornate si fanno serene e malinconiche, la protagonista si troverà  a trascorrere il suo tempo davanti a un caminetto acceso e a fare qualche passeggiata solitaria in un parco, “freddolosa e quieta come una vecchia”, desiderando che quella quiete “durasse per sempre”.

Un giorno, dopo la morte del suo compagno, che non era mai stata sicura di amare, scoppiò persino a piangere. Ma si trattò di un pianto solo provvisoriamente liberatorio, una reazione sussultoria ed estranea alle ragioni del movimento: questo aveva bisogno di ricondurre anche la responsabilità della morte di Aldo – che si era tolto la vita – a un sistema che andava distrutto. Bisognava reagire attraverso azioni esemplari: sequestri, uccisioni. Bisognava trovare “capri espiatori” perché, “nel movimento, impazzito, ormai la logica che prevale è questa”. Di cosa lei si sentisse colpevole per avervi preso parte con tanta risolutezza e coerenza non sapeva, così come non sapeva spiegarsi il suo negato diritto alla felicità. Alla fine, l’iniziale sospetto che tutti gli uomini siano degli infidi traditori rimarrà in lei come una riserva assoluta e ossidata, accanto al desiderio di trovare finalmente accoglienza e ristoro, alla sua nuova ricerca del morbido, di una “tana calda e buia” e alla nostalgia di una “madre antica”.