La falsa coscienza dell'occidente e la parata del 9 magggio a Mosca
Nella sua pretesa di razionalità assoluta, l’occidente democratico ha progressivamente rimosso la dimensione della contraddizione. Ha cioè costruito una coscienza di sé pacificata, lineare, spesso fondata su narrazioni di progresso e sviluppo ignorando più o meno deliberatamente le contraddizioni che promuoveva o assecondava al suo interno. In questa prospettiva, ogni tensione, ogni ambiguità, ogni paradosso è stato vissuto sempre più come una minaccia da eliminare anziché come una circostanza in divenire da comprendere.
Questa rimozione della contraddizione ha generato ciò che Theodor W. Adorno chiama di solito “falsa coscienza”. La falsa coscienza non è semplice ignoranza o errore: è una forma attiva di autoinganno, una volontà di non vedere, di chiudere gli occhi sulla complessità del reale. Essa è il risultato di una cultura che privilegia l'armonia apparente su quanto può risultare scomodo e destabilizzante constatare.
In questa chiave, il rifiuto della contraddizione non è solo un problema teorico, ma una postura etica ed esistenziale che domina il soggetto occidentale, e un soggetto che si illude di poter vivere ignorando o fingendo di non vedere ciò che disturba un’inerziale applicazione dei propri paradigmi di riferimento dovrà prima o poi scontarne le conseguenze. Eppure, come ci ricorda Hegel, la verità non è semplice, non è immediata: essa nasce da una sintesi faticosa e nondimeno necessaria. Quando Hegel ci invita con fermezza a sopportare il peso della contraddizione ci esorta implicitamente ad abbandonare la nostra “falsa coscienza”, e questo atteggiamento implica anche una piena assunzione di responsabilità, una disponibilità a correre i rischi che il pensiero critico porta sempre con sé. Non a caso Adorno, in continuità critica con Hegel, individua nella "falsa coscienza" la condizione in cui si trova chi rifiuta questo processo: essa è il prodotto della rimozione della contraddizione; è un pensiero che si chiude nella coerenza apparente, nella sistematicità illusoria, evitando di prendere atto di quanto potrebbe contraddire le proprie analisi e la propria prospettiva teorica. È la coscienza che si adatta all'esistente, che si conforma, che finge che tutto sia pacificato. Essa è l'effetto di una società che neutralizza la negatività per garantire la stabilità dell'ordine costituito e di un punto di vista consolidato.
Per Adorno, l’esercizio critico consiste invece in un'apertura alle contraddizioni del reale. Chi non sopporta il peso della contraddizione resta prigioniero dell'ideologia. La “dialettica negativa” è la pratica filosofica che si oppone a questa rimozione, tenendo aperta la ferita, mostrando l'inadeguatezza delle conciliazioni affrettate. Come nel pensiero di Hegel, anche per Adorno non c'è verità senza conflitto e senza assunzione di responsabilità rispetto alle conseguenze del lavoro della contradizione.
La falsa coscienza rivela non solo una struttura del pensiero, ma una postura esistenziale ed etica. Chi fugge la contraddizione, chi non accetta di portarne il peso, finisce con il vivere in una coscienza destinata a nutrirsi incessantemente di comode illusioni ideologiche. Solo chi accetta di farsi carico della contradizione sa dirigersi verso la verità e ne sa accettare e prevedere le più aspre conseguenze. Filosofare, in questo senso, è un atto di resistenza contro la tentazione di un tranquillizzante scioglimento dei conflitti, di una pace accomodante e connivente con la menzogna socialmente prevalente: è cioè l’esercizio estremo del coraggio intellettuale e morale che è necessario per prendere atto delle contraddizioni scaturite dalla falsa coscienza dell’occidente.
In una celebre immagine, Hegel scrive che “la verità è l’intero”. Ma l’intero non è una somma pacificata, un’armonia preesistente o utopicamente immaginata come a portata di mano: è il risultato di un processo in cui il lavoro del “negativo” non viene rimosso, ma interamente percorso e attraversato; e la verità non può farsi strada sezionando l’intero in modo da avere l’impressione di poterne eludere i conflitti interni, ma solo senza affrettarsi a risolverla in formule rassicuranti. Adorno, seguendo questa traccia, ha insistito sul fatto che il pensiero non debba anestetizzare il reale, ma restare esposto alle sue asperità, alle sue frizioni, alle sue lacerazioni. Pensare, per entrambi, non è ricomporre artificialmente ciò che è diviso, ma abitare le contraddizioni, reggerne il peso.
Questa esigenza non è solo teoretica: riguarda direttamente la nostra capacità di leggere il presente. Anche la storia, la politica, l’economia mondiale sono attraversate da contraddizioni che non si possono rimuovere con una retorica semplicistica. L’Occidente, in particolare, appare oggi smarrito di fronte al fallimento di molte delle sue certezze strategiche. Ma questa crisi non è solo geopolitica: è, in profondità, una crisi dei propri paradigmi valoriali di riferimento. È l’incapacità di riconoscere le contraddizioni generate dalle proprie stesse scelte e di affrontarle con lucidità.
Per scendere su un piano più concreto, sociale, economico e politico, bisogna prendere atto che per decenni l’Occidente ha praticato una strategia libero-scambista anche verso regimi totalitari come la Russia e la Cina. Questa strategia ha alimentato un processo di globalizzazione indiscriminato e l’illusione che un liberoscambismo su scala globale avrebbe portato benefici diffusi, migliorando le condizioni di vita, stimolando la modernizzazione e, con essa, favorendo una progressiva democratizzazione dei regimi autoritari. Il commercio come motore della pace e del progresso: questa è stata la grande narrazione, capace di proiettare nel futuro una speranza di armonia fondata sul benessere. Ancora oggi, chi contesta pregiudizialmente la legittimità di qualsiasi forma di protezionismo, sembra avvallare ancora con fiducia questa narrativa.
In realtà, un progresso in effetti c’è stato e la globalizzazione ha davvero comportato tutta una serie di vantaggi sotto diversi profili, perché il liberoscambismo può essere in effetti un fattore di sviluppo, di democratizzazione e di modernizzazione quando avviene secondo regole condivise; ma quando la concorrenza è sleale, quando i lavoratori di una dittatura sono privi di sostanziali diritti sindacali e politici, quando tale dittatura può produrre anche per questo merci a costi più bassi, tanto da indurre molte aziende di quei paesi dove tali diritti sono presenti a delocalizzare la propria produzione proprio dove essi sono assenti, o dove non ci sono tutele per preservare l’ambiente e le sue risorse vitali, siamo di fronte a un stratagemma sistematico per bypassare quelle stesse regole democratiche che l’occidente si è dato: delocalizzando la propria produzione corre infatti il rischio di delocalizzare anche la propria indifferenza o la propria crescente infedeltà a quelli stessi principi democratici su cui ha ritenuto per decenni di dover costruire la propria civiltà politica, e ciò nell’avventata convinzione che questa possa essere garantita dall’efficienza economica del sistema globale.
Ma tale visione si è rivelata una forma di falsa coscienza. I regimi autoritari non si sono aperti alla democrazia: hanno sfruttato l’integrazione globale per rafforzarsi, consolidare il controllo interno, accrescere il proprio potere geopolitico e militare. L’occidente, accecato dalla fiducia nella razionalità economica, ha rimosso le implicazioni politiche delle proprie scelte. Mentre deindustrializzava e delocalizzava si rendeva dipendente da energie, risorse e tecnologie controllate da altri, spesso paesi autocratici quando non vere e proprie dittature, credendo di esportare valori universali. In realtà stava solo trasferendo vulnerabilità e moltiplicando illusioni destinate ad avere effetti autodistruttivi.
Oggi i conflitti esplodono. La guerra in Ucraina, le tensioni nel Pacifico, la rinascita di logiche imperiali dimostrano che il libero commercio non ha disinnescato i contrasti, ma li ha mascherati, differiti, talvolta aggravati. Eppure, anche ora, le reazioni oscillano tra estremi, e c’è chi rifiuta il neoprotezionismo indiscriminato di Trump per invocare un liberismo indiscriminato altrettanto cieco. Ma questa alternanza segnala proprio l’incapacità di pensare in termini non ideologici, l’incapacità di sopportare il peso della contraddizione affrontando la complessità senza semplificarla.
Ogni scelta economica ha implicazioni politiche, sociali ed etiche; ciascuno di questi ambiti ha ripercussioni su tutti gli altri. Non a caso la storia, forse insieme alla sociologia, è la più interdisciplinare le discipline. Proprio per questo, pur presentando il suo conto in ritardo, alla fine lo presenta sempre. E come la storia, anche ogni sistema globale è una costruzione fragile, attraversata da forze opposte. L’Occidente ha pensato di poterlo semplificare subordinando le proprie strategie al buon funzionamento nel tempo presente di un unico fattore e oggi scopre di doversi risvegliare da questa falsa coscienza per interrogarsi di nuovo sui propri valori, sulle proprie responsabilità e sui propri limiti. Non per rifiutare il mondo, ma per interpretarlo in modo organico senza trascurare di valutare in modo circostanziato le correlazioni stringenti che sussistono tra fattori economici, culturali, religiosi, geopolitici e militari, senza illudersi che la storia non sia in grado di porre ciascuno di fronte alle responsabilità assunte evitando di prendere atto delle contraddizioni innescate dalle proprie scelte.
Purtroppo proprio oggi, quando incomincia ad essere chiara a molti l’urgenza di arginare le progressive derive populiste, in quelle stesse società sembra essersi smarrita la capacita di misurarsi con le contraddizioni che la sua falsa coscienza ha prodotto. Oggi che l’occidente dovrebbe diventare consapevole della propria falsa idea di libertà, che ha dato vita a una società ricca di crescenti diritti e sempre più povera di doveri, le contraddizioni emergono in modo sempre più violento mentre le sue residuali capacità critiche non sembrano pare in grado di affrontarle in modo coerente e organico, al punto che il contributo degli intellettuali o dei filosofi che avevano, spesso con largo anticipo, avvertito il potenziale distruttivo che si celava nella sottovalutazione di quelle contraddizioni viene sempre più rimosso o dimenticato.
Tra questi, c’è sicuramente Simone Weil, che aveva ravvisato un elemento di ipocrita debolezza nel posporre il ruolo cruciale dei “doveri” a quello dei “diritti”; ma in altro modo e per altri versi c’è anche Karl Popper, con la sua critica a un uso irresponsabile uso dei media e della televisione. Pur prendendo le distanze dalla dialettica hegeliana e dal materialismo storico, Popper ha offerto un modello filosofico che, in un altro registro, affronta infatti una questione decisiva: quella di considerare la verità non come dogma, ma come processo aperto, che deve prendere atto dei rischi che sta correndo la società liberale e democratica in cui viviamo. La sua idea di falsificabilità, secondo cui una teoria è scientifica solo se è esposta alla possibilità di essere confutata, implica una forma profonda di umiltà intellettuale e al tempo stesso di coraggio ideale. Popper rappresenta infatti un esempio concreto di come, anche da un punto di vista liberale, si possa trovare il coraggio intellettuale di prendere atto di una contraddizione che per lui, ma non per altri liberali, è solo apparente, e che concerne l’uso della televisione nelle società liberaldemocratiche: è infatti proprio in quanto liberale che si dichiara favorevole ad un controllo nell’uso dei media più potenti, e cioè di quelli entrano senza chiedere un previo consenso nelle case dei cittadini.
Con sorprendente lungimiranza, in una celebre intervista pubblicata con il titolo “Cattiva maestra televisione”, Popper denunciava già negli anni 70 il potere devastante dei media nella diffusione della violenza, nella banalizzazione del male e nella mancata formazione di coscienze autenticamente democratiche, tanto da proporre, come rimedio pratico, l’idea di una sorta di “patente” obbligatoria per chi gestisce i mezzi di comunicazione.
Quella proposta fu aspramente criticata da alcuni esponenti di una discutibile idea di liberalismo, che vi videro una minaccia alla libertà d’espressione. Ma Popper non mirava alla censura: sollecitava soltanto un esercizio di responsabilità. Chiedeva che la libertà venisse esercitata con consapevolezza, nel rispetto di doveri ineludibili da parte di chi gestisce il potere mediatico, di chi ha nelle sue mani strumenti così potenti da influenzare milioni di persone. In questo senso, la sua posizione era profondamente liberale, nel senso classico e non strumentalmente ideologico del termine: libertà e responsabilità non sono opposti, ma formano una sintesi necessaria e inestricabile, tanto che solo alla luce di questa anche lo Stato liberale potrà sopravvivere.
Oggi, immersi in una società in cui la violenza verbale e simbolica è ovunque – nei media, nei social network, nel linguaggio politico – le parole di Popper appaiono ancora più attuali. In un’epoca in cui bullismo, cyberbullismo tossicodipendenze e dipendenze dai social sono sempre più pervasive e stanno devastando la vita di molti giovani, in cui gang di adolescenti si prendono con tragica ritualità a coltellate nelle strade, egli aveva colto, prima di molti altri, la pericolosità di un’industria della comunicazione guidata solo dalla logica dell’audience e del profitto che, ancor prima della diffusione di internet e dei social, tendeva già ad abbattere ogni freno etico. Anche in questo caso, ci aveva invitati a pensare le contraddizioni del nostro tempo, a non ignorare il prezzo umano di una libertà non accompagnata dall’esercizio di un corrispettivo senso di responsabilità.
Il fatto stesso che le università, oltre che le piazze e le strade, di molti paesi occidentali, Italia inclusa, siano oggi di piene di manifestanti che supportano il popolo palestinese quando questo è purtroppo, di fatto, solo un modo per supportare i terroristi criminali di Hamas che lo tengono in ostaggio insieme ai pochi sopravvissuti ostaggi israeliani, e che siano invece rarissime le manifestazioni in cui si prendono chiaramente le distanze dalla politica non meno criminale del Cremlino, è un chiaro indizio dell’esito del nefasto processo d’ideologizzazione con cui la falsa coscienza dell’occidente sembra fare le prove generali della sua autodistruzione.
Se gli avvertimenti e le indicazioni di Popper sembrano da tempo ormai cadute nel vuoto, la sua voce è però ancora parte viva di una visione critica di cui le nostre società sembrano aver smarrito la strada e che era stata nel Novecento sollecitata e nutrita anche da filosofi da lui molto distanti come Adorno e Simone Weil: tutti ci avevano chiesto, da prospettive anche molto diverse e talora opposte, di non fuggire di fronte alla complessità, ma di restare fedeli alla verità anche quando essa ci appare scomoda, frantumata, inquieta, di non soggiacere all’ipocrisia e alla miopia che hanno ispirato troppo a lungo sia molte anime belle assetate di pace e giustizia sia tanti liberisti di comodo, che hanno usato e ancora stanno usando ideali e principi in sé giusti in modo strumentale e retorico, senza preoccuparsi di declinarli in modo circostanziato e realistico. Rientrano in questa schiera anche, o soprattutto, coloro che hanno considerato troppo a lungo il trionfo del libero mercato come una la garanzia sufficiente alla conservazione dello Stato liberale per poi delocalizzare la produzione dei loro paesi in altri ostili alla democrazia, che combinavano economia di mercato e assenza di libertà politica esattamente come accadeva nel regime fascisti o in quello nazista.
La Russia e la Cina sono oggi Stati di questo tipo, ma se la prima si è trasformata con Putin in una dittatura criminale che basa la sua politica imperiale sulla forza militare e la sopraffazione di altri popoli liberi, la seconda ha saputo riciclare una commistione di fattori economici e politici capace di provocare una crescita economica che in passato era stata conseguita solo dal regime nazista.
In questo contesto, la cerimonia nell’anniversario della vittoria sul nazismo che si è svolta a Mosca il 9 maggio scorso alla presenza, oltre che di Putin e di altri leader mondiali, anche di Xi Jinping ha confermato anche scenograficamente l’alleanza di Russia e Cina, due paesi che hanno tratto negli ultimi trent’anni grandi vantaggi commerciali dal loro interscambio con l’occidente, che oggi si trova di fronte il blocco di quest’alleanza e non sembra in grado di fronteggiarla in maniera efficace, sia per la minacciosa potenza militare russa sia per la dipendenza economica dalla Cina, ed è costretto a scendere a compromessi con entrambi, compromessi che potrebbero avere l’esito di rafforzarla ulteriormente.
La Russia, un paese che un PIL inferiore a quello dell’Italia, è riuscito a tenere tutto l’occidente in scacco lungo tutto il corso della guerra d’Ucraina e la Cina non ha mostrato grandi esitazioni nel supportare la politica neo-imperiale del Cremlino. Con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca la situazione è ulteriormente peggiorata, essendosi deteriorati i rapporti transatlantici tra Europa e Stati Uniti insieme ai loro comuni riferimenti politici e valoriali. In uno scenario tanto pericoloso per le sue possibili conseguenze belliche su scala mondiale, l’Occidente si mostra ancora una volta diviso, non in grado di avere una linea comune e di perseguirla con coerenza e decisione.
Un simile quadro geopolitico sarebbe stato evitabile se, per un mero calcolo di vantaggi economici e per il non prendere atto della vera natura di quei regimi, queste due superpotenze non fossero stati nutrite così a lungo da tutti i paesi occidentali, fino ad arrivare, nel caso dell’Europa, a instaurare con la Russia un rapporto di dipendenza energetica. Oggi, quando il rischio di una guerra nucleare su scala globale incombe, sia il neoprotezionismo trumpiano sia qualsiasi politica di appeasement potrebbero rivelarsi a un tempo pericolose e intempestive, ma non meno pericolose e intempestive potrebbero ormai rivelarsi purtroppo anche scelte più rigorose e intransigenti.
L’impasse in cui l’occidente si trova, anche in virtù della guerra ibrida da tempo in corso - guerra che lo vede svantaggiato proprio in virtù del fronte interno con cui deve, al contrario di questi due paesi, fare i conti quotidianamente - espone la sua opinione pubblica a pressioni destabilizzanti. La speranza, a questo punto, è che l’Europa possa riuscire ad avere un ruolo finalmente autonomo e centrale e che le attuali leadership dei paesi occidentali riescano ad arginare quei movimenti populisti che, supportati più o meno direttamente da Mosca, condizionano le coscienze dei loro cittadini, ma nemmeno questa prospettiva può scongiurare la possibilità di dover restare per molti anni sotto scacco di potenze che ormai hanno poco da perdere dall’alzare ulteriormente la posta, con esiti difficilmente prevedibili, ma probabilmente deleteri per l’umanità.