Popper, Croce e le insidie di un paragone ellittico

 

    Karl Popper riteneva che le regole fondamentali del metodo scientifico non fossero molto diverse da quelle della democrazia. Così come una teoria scientifica, per poter essere considerata tale, deve essere falsificabile, analogamente in democrazia chi viene eletto dal popolo per governare deve sottoporre il suo operato politico al giudizio del popolo e deve poter essere sostituito qualora il popolo ritenga che abbia governato male. Sia le teorie scientifiche, sia chi è stato eletto dai cittadini a ricoprire qualche carica politica deve sottoporsi alla controprova dell’esperienza e della storia. Così come una teoria che non ammette la possibilità di essere falsificata e non indica in quali circostanze potrebbe esserlo non è scientifica, così una società in cui chi governa non sottopone il proprio operato al giudizio degli elettori, nei tempi e modi previsti dalla legge, non è democratica. 

    Il marxismo è, secondo Popper, un tipico esempio di teoria non scientifica, in quanto non ha mai ammesso di poter essere falsificata dalle circostanze storiche che hanno smentito le sue previsioni. Trattandosi di una teoria imponente, che è riuscita a operare una sintesi poderosa e coerente tra l’idealismo dialettico di Hegel, il materialismo di Feuerbach, il pensiero degli economisti classici e anche un certo alone di scientismo positivista, ha egemonizzato l’ampio e articolato movimento che da ormai oltre mezzo secolo si stava battendo per realizzare una società che fosse più giusta oltre che più libera.

    Se il pensiero di Marx costituisce sicuramente un’imponente costruzione teorica, consentendo effettivamente una migliore comprensione della società e della storia, non foss’altro per averne ampiamente determinato il corso durante gli ultimi due secoli, tuttavia della storia il marxismo non ha mai accettato il responso. Quando infatti si fa notare ai marxisti che la maggior parte delle previsioni di Marx sono state smentite, che la rivoluzione non è venuta mai in paesi altamente industrializzati, ma in paesi ancora prevalentemente agricoli, che le classi medie non sono progressivamente scomparse, che non c'è stato un progressivo impoverimento della maggior parte della popolazione nei paesi industrializzati e che il comunismo, invece di dare vita a una sua società più giusta e più libera, ha dato sempre vita, dovunque si sia attuato, a sistemi totalitari che hanno prodotto complessivamente decine di milioni di morti fra i propri civili in tempi di pace, molti rispondono a queste osservazioni sostenendo che in tutti questi casi non si è trattato né di vero marxismo né di vero comunismo, e che il vero comunismo è invece un ideale che deve ancora essere realizzato.   

    In questo modo, marxisti e comunisti si appropriano non solo di valori che preesistevano al marxismo, ma soprattutto del sogno irriducibile di una società più giusta, ovvero si appropriano di un ideale regolativo e fondamentale, di vitale importanza perché possano avere un senso anche i progetti politici liberaldemocratici e socialdemocratici. I valori etici e politici che possono consentire la costruzione di questa società “giusta”, in cui ogni essere umano in quanto tale usufruisca della possibilità concreta di realizzare i diritti astratti e formali previsti dal liberalismo politico, e cioè della possibilità di poter condurre una vita dignitosa e di sviluppare a pieno tutte quelle caratteristiche che lo rendono a pieno titolo un essere umano, quei valori non sono certo stati inventati dal marxismo, ma semmai dallo stesso liberalismo e dal socialismo premarxista, e sviluppati in seguito dal pensiero socialdemocratico e liberalsocialista. Rispetto ad altre teorie socialiste, il marxismo si rese preferibile per la sua capacità d’indurre molti popoli in tutto il mondo a ritenere la realizzazione di un simile sogno a portata di mano, così da far risultare totalmente ingiustificata la conservazione dello status quo. Proprio per questo, però, ha finito col produrre della società sostanzialmente totalitarie.

    Ora, secondo Popper non è un caso che una teoria politica non scientifica, ma che invece pretende di esserlo, finisca col produrre uno Stato totalitario. La teoria che fa delle previsioni che non si avverano e che non trae da tali mancate previsioni indicazioni che ne suggeriscano una radicale revisione si comporta infatti come dei politici che pretendessero di continuare a governare nonostante la bocciatura elettorale da parte dei propri cittadini. Il sostenere che il comunismo che si è realizzato in mezzo mondo non fosse in realtà vero comunismo, che non fosse una conseguenza delle idee di Marx che pur erano agitate come vessilli da tutti coloro che lo realizzarono, oltre a suggerire una certa pochezza intellettuale e/o morale di questi ultimi rivela il rifiuto di prendere in esame le mancate conferme della storia come altrettante falsificazioni della teoria e una mentalità essenzialmente totalitaria, dato questa è tipica proprio di chi non ammette smentite né dall’esperienza né dalla storia. 

   Per questo s’inganna chi dovesse pensare che il comunismo sia oggi qualcosa di superato, o che non goda più dell’enorme prestigio di cui godeva un secolo fa: essendo di fatto insensibili a qualsiasi smentita della storia e presumendo di che il comunismo non si sia mai realizzato nella sua essenza, i comunisti ritengono la loro fede politica superiore a qualsiasi ipotetica falsificazione. Inoltre, paragonando qualsiasi società imperfetta e reale a una perfetta e ideale adottano implicitamente un punto di vista dotato di un enorme potere distruttivo, senza che sia mai stata riscontrata la sua capacità di costruire sistemi sociali efficienti e giusti. I loro paradigmi teorici possono così rimanere attivi e continuare a risultare accattivanti per molte persone indipendentemente da tutto, anche dei milioni di morti nei gulag sovietici o nei Laogai cinesi, perché non è quello il comunismo e non è quella la vera attuazione del marxismo, così come non lo era quella nella Germania est, in Cecoslovacchia, in Bielorussia, in Polonia, in Ungheria, in Romania, in Cambogia, in Corea del Nord, a Cuba e in tutti gli altri paesi dove è stato attuato.

    Trattandosi di un regime politico che presume di poter realizzare la maggior felicità possibile per l’umanità, ed essendo chiaro a tutti che, vista l’enorme quantità d’ingiustizie e di sofferenze ancora presenti sulla terra, una simile felicità non è stata mai realizzata, è evidente che non è mai stato realizzato nemmeno il comunismo. Il suo mito potrà così continuare a fornire il termine per un paragone ellittico – come Benedetto Croce ebbe a definirlo - in grado di far risultare come particolarmente ingiuste o odiose le liberaldemocrazie che consentono la proprietà privata dei mezzi di produzione e l’accumulazione nelle mani di pochi enormi capitali. In pratica, tutte le critiche e le riserve che sono state manifestate verso le società comuniste che si sono storicamente realizzate non hanno minimamente scalfito la fiducia nel comunismo in quanto riferimento ideale di un paragone ellittico con una società reale, per forza di cose disumana al cospetto di quella ideale.

    Confondendo una società “giusta”, in cui ogni cittadino è messo in condizione di sviluppare appieno le sue qualità e attitudini e di esercitare effettivamente quei diritti fondamentali che potrebbero metterlo in condizione di perseguire la ricerca della propria felicità, con una società di eguali, che non è affatto la più giusta, in quanto non tiene conto di tutte quelle qualità che possono determinare diversi livelli di merito in ogni ambito; e presumendo che il modo migliore per realizzare comunque entrambi questi obiettivi sia comunque l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, il comunismo marxista ha egemonizzato un doppio sogno, trasformando il sacrosanto desiderio di una società “giusta”, nel senso appena specificato, nel progetto di una società totalitaria, che a sua volta ha contribuito alla nascita di altre non meno tragiche e disumane.

    D’altro canto, tutti coloro che prima di Marx si erano battuti per realizzare una società più giusta senza mettere in discussione la struttura della società capitalista e la forma politica liberaldemocratica, dalla Fabian Society al Cartismo, da Claude-Henri de Saint-Simon a Robert Owen e a John Stuart Mill, sono incorsi in una sorte non molto diversa da coloro che, durante e dopo la Seconda Internazionale, furono bollati come “revisionisti” o “socialfascisti”. In un analogo destino incorsero infatti Eduard Bernstein e tutti i riformisti, che dedicarono la loro vita al tentativo di realizzare un modello di società che coniugasse libertà e giustizia. Anche loro furono spesso bollati come “socialfascisti”, per il solo fatto di aver criticato alcuni aspetti o principi del marxismo. Come Bernstein, appunto, che pur continuando a professarsi marxista criticò la teoria del valore-lavoro, assolutamente centrale nell’analisi economica di Marx. Attraverso l’epiteto di “nazionalfascisti”, i socialdemocratici e i liberalsocialisti, che stavano anticipando la strada che poi sarà intrapresa dalla sinistra democratica in tutto l’occidente, furono così equiparati a dei fascisti, e anzi furono ritenuti per certi versi persino più pericolosi e ostativi alla realizzazione della dittatura del proletariato.

    Il fatto che oggi, dopo prolungate esitazioni, molti aderenti ai partiti che erano comunisti prima del crollo del muro di Berlino sembrino aver scelto in maniera irreversibile la via socialdemocratica, basata su riforme “a spizzico”, come le chiamava Popper, e cioè graduali, che procedono aspetto per aspetto in modo circostanziato, non significa che abbiano rinunciato ad operare un confronto ellittico tra l’imperfetta e violenta società capitalistica e quella ideale e perfetta che potrebbe scaturire da una rivoluzione olistica di sistema. Questo paragone è sotto traccia sempre attivo, spesso inconsapevolmente e in assoluta buona fede, in molte persone che si ritengono di “sinistra”, e ciò perché esso è semplice da pensare, olistico e risolutivo, in grado orientare in modo immediato e di determinare un passaggio all’atto che si può presumere rivoluzionario o comunque liberatorio.

    È anche per queste caratteristiche salienti di quel paragone ellittico che il mito della società pienamente paritaria, senza più differenze economiche significative, continua a persistere insieme alla correlativa confusione fra giustizia e uguaglianza economica, così come persiste il mito del comunismo come quel tipo di società essenzialmente priva di sfruttamento e di violenza, tanto che al confronto tutte le altre fanno inorridire.

    Se i liberali non torneranno a prendere sul serio la potenza di un simile paragone, se non smetteranno di pensare di aver vinto una partita che i sostenitori di sistemi politici illiberali non si sono mai accorti di aver perso si troveranno di nuovo, come circa un secolo fa, di fronte al rischio di risultare irrilevanti proprio quando ci sarebbe più bisogno del loro contributo per le sorti della democrazia. Solo partecipando pienamente al lavoro della “ragione comunicativa”, solo accettando pienamente e apertamente il confronto dialogico con quelle teorie illiberali che hanno determinato la storia degli ultimi due secoli e con i paradigmi teorici che le alimentano, come Popper e Croce hanno insegnato a fare, solo mediante questo confronto assiduo e paziente i valori liberali potranno ricollocarsi al centro del confronto politico, che è l’unico luogo che loro compete, nonché il più propizio alla loro difesa e promozione.