La sfida della Cina alle democrazie europee secondo John Stuart Mill

 

 

   John Stuart Mill fu un liberale e come Alexis de Tocqueville individuò con largo anticipo quelli che potevano essere i pericoli principali per la democrazia, convenendo con lui che questi fossero riconducibili al rischio che il governo di una maggioranza potesse privare le minoranze dei fondamentali diritti previsti dallo Stato liberale. Per questo, la democrazia era a suo avviso essenzialmente esposta al rischio di subire un’involuzione in senso autoritario.

  Da liberale, tuttavia, Mill manifestò una certa simpatia per quel socialismo che in seguito Marx avrebbe definito “utopistico” e comprese che in economia bisognava distinguere nettamente fra le “leggi di produzione” e le “leggi di distribuzione”: mentre infatti le prime, sulla linea della tradizione classica, rimanevano legge di carattere “naturale”, le seconde venivano da lui considerate come dipendenti dalle istituzioni umane quindi storicamente relative, dato che gli uomini, individualmente o collettivamente, possono fare quel che ritengono più giusto, sotto il profilo etico, sociale, e politico, della ricchezza da loro prodotta.

   In pratica, con circa un secolo di anticipo rispetto a John Mainard Keynes, Mill comprese che la società capitalistica non poteva essere migliorata modificando il modo con cui la ricchezza veniva prodotta e trasformando l’economia stessa - come Carl Marx proprio in quegli anni proponeva - in un sistema collettivistico, bensì intervenendo sul modo in cui la ricchezza prodotta veniva distribuita. Ferma restando in ogni caso l’esigenza di salvaguardare in primo luogo le libertà civili e politiche individuali e pur mettendo in guardia contro ogni forma di paternalismo burocratico, Mill ritiene infatti che possa essere ammesso, contro la tradizione del lassaiz faire, un vasto campo d’interventi pubblici nell’economia per distribuire la ricchezza nel modo più favorevole alla vita della collettività nel suo complesso.

 

   Pur auspicando uno sviluppo in questo senso delle democrazie occidentali, Mill è anche convinto che ogni nazione possa finire con l’opprimere “una parte di se stessa” e che questa circostanza dovrebbe consigliare di assumere delle precauzioni adeguate, perché la tirannide delle maggioranze è il pericolo principale da cui ogni democrazia dovrebbe guardarsi. Infatti, quando la maggioranza si comporta in modo dispotico verso le minoranze essa è in grado di esserlo in sommo grado, può cioè esercitare “un dispotismo più formidabile di qualunque altra oppressione legale”, perché riuscendo a penetrare “a fondo nei più intimi particolari della vita” si rivela capace d’incatenare “persino le anime” dei cittadini. 

   Un potere del genere è molto pericoloso proprio in quanto esso può essere esercitato d'accordo con l'opinione pubblica, e in questo modo può riuscire, con il consenso della maggioranza, a confiscare in maniera sorda e strisciante i diritti delle minoranze, che devono invece essere sempre tutelati in maniera radicale e senza eccezioni.

   Il ragionamento che fa Mill per sostenere questa tesi costituisce un argomento classico del liberalismo politico: se infatti - come scrive in On liberty, (Sulla libertà, pubblicato nel 1859) - “anche tutta la specie umana, meno uno, avesse un’opinione, e quest’uno fosse di opinione contraria, l’umanità non avrebbe maggior diritto d’imporre il silenzio a questa persona, che questa persona, ove lo potesse, d’imporre silenzio all’umanità”.

   La fiducia cieca nel progresso e negli automatismi della democrazia può invece indurre a porre in secondo piano questo principio fondamentale e divenire così una preziosa quanto inconsapevole alleata della tirannide del costume. Pensare che la meta ultima del miglioramento della specie consista nel renderci tutti uguali può inoltre indurci a dimenticare che “la dissomiglianza esistente fra le diverse persone è la prima cosa che richiama l’attenzione” e può esporci al rischio di non valorizzare proprio quelle differenze che sono alla base della ricchezza culturale della civiltà occidentale. Così, proprio quando la democrazia sembra ampiamente consolidata, la tirannide del costume, i suoi paradigmi culturali estesi e pervasivi, possono eroderne silenziosamente le fondamenta.

   Secondo Mill oggi – e cioè quando a metà Ottocento scriveva On Liberty - noi abbiamo sotto gli occhi un esempio e un avvertimento di un simile pericolo nella Cina. A meno che lo spirito individuale non trovi in se stesso la forza di rialzarsi e di scuotere il giogo, si deve “temere che l’Europa, malgrado i suoi gloriosi precedenti e il cristianesimo che professa, tenderà a diventare un’altra Cina. Chi ha salvato finora la nostra civiltà da questa sorte? Chi ha fatto della famiglia delle nazioni europee una parte progressiva anziché stazionaria del genere umano? Questo risultato non si può attribuire alla nostra superiore civiltà (la quale, se esiste, esiste come effetto e non come causa), ma alla straordinaria diversità di carattere e di cultura che si riscontra fra noi. In Europa le nazioni, i ceti, gli individui, si svolsero in modi molto dissimili gli uni dagli altri; si aprirono una grande varietà di vie conducenti ciascuna a qualcosa di buono; e quantunque in ogni epoca coloro che seguivano via differenti abbiano mostrato una reciproca intolleranza, ed abbiano considerato cosa lodevole e meritoria costringere i terzi a camminare sulle loro orme, nonostante ciò i loro sforzi per predominare esclusivamente non ebbero quasi mai un effetto duraturo, sì che ognuno dovette subire il bene portato dagli altri. A mio avviso l'Europa deve la sua civiltà progredita e multiforme unicamente a siffatta pluralità di tipi, ma essa comincia già a godere di questo vantaggio in proporzioni sempre minori, e si incammina a grandi passi verso l'ideale cinese della uniformità universale”.

   Già Tocqueville aveva avuto modo di notare che i francesi del suo tempo si assomigliavano assai di più di quelli della generazione precedente e in ogni democrazia questa massificazione progressiva rischia di comprimere gli spazi delle minoranze. Per quanto la consideri senza dubbio la miglior forma di governo, Mill osserva che la democrazia potrà restarlo a lungo solo se sarà capace di rafforzare questo suo “lato debole”, e cioè solo se saprà garantire che “nessuna classe, neppure la più numerosa, sia in condizioni di costringere le altre a vivere ai margini della vita politica, e di controllare il cammino della situazione e dell'amministrazione secondo il suo esclusivo interesse. Il problema è di trovare i mezzi per impedire questo abuso senza sacrificare i vantaggi caratteristici del governo popolare”.

   Come fare dunque per impedire quest’abuso e rafforzare questo lato debole? Come difendere la democrazia dai pericoli che essa stessa inconsapevolmente genera al suo interno? Non di certo, come auspicavano alcuni suoi contemporanei meno lungimiranti di lui, “limitando il suffragio”, dato che un simile provvedimento implicherebbe “che una parte dei cittadini sarà privata dei suoi diritti nella rappresentanza”.  La soluzione, per Mill, è invece quella di rafforzare gli strumenti culturali di cui un popolo dispone, sviluppando in ciascun cittadino quelle risorse intellettuali e quelle qualità umane che sono indispensabili per la partecipazione attiva alla vita democratica: “uno dei principali benefici di un governo libero – scrive in Considerations on Representative Government (1861; trad. it. Considerazioni sul governo rappresentativo, 1946) - è questa educazione delle intelligenze e dei sentimenti che scende fino agli ultimi strati del popolo, quando esso è chiamato a prendere parte agli atti che toccano direttamente i grandi interessi del paese”. Se qualcuno ne dubitasse, Mill chiama “a testimone tutta la grande opera del Tocqueville e in particolare il suo giudizio sugli americani. Quasi tutti gli stranieri sono colpiti da questo fatto: che in un certo senso ogni americano è, ad un tempo, un patriota e un uomo colto; e Tocqueville ha dimostrato come queste qualità siano strettamente legate alle loro istituzioni democratiche”.

   In un’epoca come la nostra, in cui la formazione culturale del cittadino viene avvertita sempre più come un aspetto trascurabile della sua vita sociale e politica, le minacce per la democrazia individuate con largo anticipo da Tocqueville e da Mill suonano come avvisi quanto mai lungimiranti e opportuni. Se infatti gli Stati Uniti stanno perdendo il primato economico e la leadership politica del mondo, se l’Europa si vede assegnare ormai da tempo un ruolo marginale, se entrambe le loro popolazioni dichiarano nei sondaggi di tenere sempre meno alle regole fondamentali della convivenza democratica e se infine, in un mondo globalizzato come quello attuale, la società americana, quella europea e quella cinese si assomigliano di fatto sempre di più, l’insieme di tutte queste circostanze non può che confortare l’impressione che la profezia di Mill si stia avverando.