Alexis de Tocqueville e i pericoli latenti nella democrazia

 

  La democrazia in America è un libro per molti versi profetico. In questo capolavoro della storiografia liberale Alexis de Tocqueville riesce infatti a prefigurare scenari che si realizzeranno solo molto tempo dopo, con una lungimiranza e una precisione sorprendenti. Ma non solo: in una certa misura anticipa circostanze che saranno successivamente illustrate da filosofi e intellettuali di tutt’altra formazione culturale, come, ad esempio Iosè Ortega y Gasset o Herbert Marcuse.

   Cosa minaccia la democrazia? Cos’ha da temere? In quali forme di oppressione potrebbe trasfigurarsi? Queste sono grosso modo le domande che Alexis de Tocqueville si pose circa due secoli fa e che suonano decisamente attuali. La sua risposta può trovare forse una sintesi efficace nel passo seguente di La democrazia in America, che riportiamo per intero perché è tanto denso di passaggi significativi che sarebbe improvvido l’ometterne qualcuno.

   “Il tipo di oppressione da cui sono minacciati i popoli democratici – scrive Tocqueville - non rassomiglierà in nulla al dispotismo del passato, e i nostri contemporanei non riuscirebbero a trovarne l’immagine nei loro ricordi. Ed io stesso cerco invano un’espressione che riproduca e racchiuda l’idea che me ne sono fatta: i termini abusati di tirannide e di dispotismo non sono più adatti. La cosa è nuova: e poiché non posso darle un nome, è necessario che ne dia almeno una definizione. Quando provo ad immaginare in quale sembiante il dispotismo apparirà nel mondo, vedo una folla immensa di uomini, tutti simili ed uguali, che girano senza posa su se stessi per procurarsi piaceri minuti e volgari di cui nutrono la loro anima. Ognuno di essi, considerato a sé, è come estraneo al destino di tutti gli altri: i figli e gli amici più vicini esauriscono per lui l’intera razza umana, e quanto al resto dei suoi concittadini egli è loro accanto ma non li vede, li tocca ma non li sente. L’uomo vive solo in se stesso e per se stesso: e se è vero che gli resta ancora una famiglia, è altresì vero che non ha più patria”.

   La folla immensa di uomini, tutti simili ed uguali, che riempie gli spazi pubblici durante certi spettacoli, concerti, manifestazioni politiche o sportive, la stessa che poi trasuda dai grandi magazzini, è ciò che caratterizza, anche secondo Ortega y Gasset, l’epoca delle masse, ovvero quella in cui moltitudini d’individui si stringono in spazi che a mala pena riescono a contenerli ergendosi così a protagoniste della storia.

 

   In effetti, l’inizio di quest’epoca può grosso modo essere fatto risalire alla rivoluzione francese, ma al tempo di Tocqueville i suoi sviluppi non potevano essere ancora evidenti come lo saranno nel secolo successivo. Essa gli sembra comunque già caratterizzata da un potere invisibile e pervasivo: infatti, al di sopra di tutti questi individui che sembrano vivere solo per se stessi, egli scorge “un potere immenso e provvidenziale, che si preoccupa da solo di garantire i loro piaceri e che veglia sulla loro sorte: un potere assoluto, insinuante, regolatore, preveggente e tollerabile. Se esso si proponesse il compito di preparare gli uomini all’età virile, potrebbe rassomigliare alla potestà paterna; ma, al contrario, cerca di fissarli irrevocabilmente all’infanzia e preferisce che i cittadini godano, purché non pensino ad altro. Questo potere provvede al loro benessere, ma esige di esserne il solo arbitro e l’unico agente; garantisce la sicurezza, prevede e soddisfa i bisogni, agevola i piaceri, dirige gli affari più importanti e le industrie, regola le successioni e divide le eredità: non può forse togliere anche la preoccupazione di pensare e la pena di vivere? È a questo modo che esso rende ogni giorno meno utile e più raro l’uso del libero arbitrio, chiude l’azione della volontà in uno spazio sempre più ristretto, sottrae a poco a poco ogni cittadino a se stesso. L’uguaglianza ha preparato gli uomini a tutte queste cose, li ha disposti a soffrirle e spesso a considerarle perfino un vantaggio. Dopo aver preso, uno ad uno, ogni cittadino nelle sue spire poderose ed averlo forgiato a suo libito, il potere sovrano protende la sua ombra sulla società nel suo insieme, la copre in tutta la sua estensione di una tela di ragno di piccole regole complicate, minuziose ed uniformi, attraverso le quali le menti più originali e le anime più vigorose non riuscirebbero mai a passare, per staccarsi dalla folla. Esso non spezza le volontà, ma le ammorbidisce, le piega e le dirige; raramente costringe ad agire, ma s’oppone sempre a che si agisca; non distrugge, ma impedisce che i germogli nascano; non tiranneggia, ma crea piccole difficoltà, comprime, snerva, spegne, inebetisce, riduce ogni popolo, finalmente, a non essere altro che un gregge di animali pavidi ed industriosi, di cui il governo è il pastore. Ho sempre pensato che una servitù di questo genere, dolce, regolata, tollerabile, di cui ho appena tracciato il quadro, potrebbe coesistere meglio di quanto di solito si immagina con qualcuna delle forme esteriori della libertà, e che non le sarebbe difficile stabilirsi anche all’ombra del principio della sovranità popolare”.

   Ora, la circostanza e la prospettiva di cui Tocqueville ha così ben descritto il quadro sembrano avere qualche analogia non marginale con il peculiare tipo di “totalitarismo” che secondo Marcuse può essere prodotta dalla moderna società dei consumi. Anche quando indossa una veste apparentemente democratica, essa infatti sembra in grado di generare mostri invisibili, in grado di portare a compimento con successo la reificazione di ogni individuo che vive in una società democratica

  “Il termine totalitario, infatti – scrive Marcuse usando questa parola in maniera impropriamente estensiva, ma cogliendo così una tendenza reale della società democratica e di massa - non si applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione economico-tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti. Essa preclude per tal via l'emergere di una opposizione efficace contro l'insieme del sistema. Non soltanto una forma specifica di governo o di dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e di distribuzione, sistema che può essere benissimo compatibile con un pluralismo di partiti, di giornali, di poteri controbilanciantisi ecc.” 

   Già negli anni sessanta le persone si riconoscevano nelle loro merci; esse potevano trovare, per Marcuse, “la loro anima nella loro automobile, nel giradischi ad alta fedeltà, nella casa a due piani, nell'attrezzatura della cucina”. Ormai il meccanismo che legava l'individuo alla sua società era mutato, e il controllo sociale si radicava nei nuovi bisogni che riusciva a produrre. Oggi, le stesse persone rischiano di riconoscersi nel personaggio di un videogioco o nel proprio pubblico sembiante su un social network, rischiando così anche di apparire e scomparire con la stessa facilità, di cadere in depressione o di ergersi a eroiche protagoniste di vicende inconsistenti.

   Pare proprio, per ritornare a usare le parole di Tocqueville, che un potere omnipervasivo, senza nulla imporre, riesca ad ammorbidirle, piegarle, dirigerle. Un simile potere, ancora oggi come allora, “non distrugge, ma impedisce che i germogli nascano; non tiranneggia, ma crea piccole difficoltà, comprime, snerva, spegne, inebetisce, riduce ogni popolo, finalmente, a non essere altro che un gregge di animali pavidi ed industriosi, di cui il governo è il pastore”.

   Questo potere dolce, che blandisce con la concessione di libertà molteplici e spesso rovinose, che induce a “desublimare” con disinvoltura e apparente leggerezza, riesce per Marcuse a sopprimere i germogli di ogni autentica “libertà”. Attraverso la creazione di bisogni illusoriamente liberatori, ma essenzialmente repressivi, la società di massa si è infatti trasfigurata in una società liquida e inerziale, in cui si produce e consuma senza soluzione di continuità qualsiasi cosa e in cui tutto sembra permesso, tranne ciò che può rendere davvero più liberi.

   Questa falsa libertà è in grado di produrre un’incessante censura in modo sottile e indiretto: moltiplicando gli enti con cui ci si può identificare, producendo un’enorme quantità di prodotti simili di bassa qualità, annega il senso critico e inebetisce il gusto in un mare indifferenziato di offerte che per la sua vastità svolge surrettiziamente una funzione censoria.

   Ciò è particolarmente evidente con l’offerta culturale. Secondo Harold Bloom – il grande critico letterario americano di recente scomparso - la stessa ricca messe di libri che riempiono le librerie ha questa funzione: quando il mercato è inondato di libri mediocri, i buoni libri diventano irraggiungibili, o perlomeno diventa molto più improbabile imbattersi nell’occasione di leggerli. Solo alcuni lettori culturalmente avveduti riescono a rintracciarli. Analogamente, senza alcun bisogno di reprimere, ma anzi riducendo ai minimi termini la propria attività coercitiva, si può indurre a consumare qualsiasi cosa e a intrattenersi in maniera standardizzata e appiattita con vari tipi di “divertimenti” compulsivi, riducendo progressivamente anche la comunicazione umana a una dimensione unidimensionale, alimentata da un potere sordo e invisibile, ma in grado tuttavia di operare in maniera pervasiva e capillare.