Uomini a perdere

  

C’è una buona parte della letteratura contemporanea che ha un ritmo spezzettato e ama imitare l’oralità. Predilige i morti ammazzati e gli assassini da stanare, o in alternativa gesti estremi, frattaglie, personaggi schizzati.

   A frequentare questa letteratura sembra  di essere finiti talvolta in un fumettone, magari un video clip. La letteratura di Gustavo Micheletti sta su un altro pianeta.
   Intanto la forma, la lingua, lo stile come dir si voglia: procede elegante e lieve, senza esibizionismi. Sembra per l’esattezza di veder passare un piccolo  fiume che ha raggiunto la pianura e scorre pulito e placido. Placido eppure non lento, anzi. Con il suo stile misurato Micheletti introduce situazioni di attesa, quasi di suspence. Ed è strano, considerando che in fondo succede poco nei cinque racconti che compongono “Uomini a perdere”. Succedono per lo più pensieri, emozioni, scarti impercettibili nelle reciproche relazioni fra i personaggi, oppure gesti. Succede tutto, per lo più, nello spazio del silenzio, delle indecisioni, delle occasioni mancate o perdute, di emozioni segrete e forti.
   I personaggi stessi somigliano alla lingua che li descrive. Sono persone gentili e introspettive, quasi sospese sulla loro vita: “Gli bastò incrociare per un attimo il suo sguardo per capire che era felice come poteva esserlo lei, sempre in bilico su una bolla d’aria dalla quale forse non sarebbe  mai del tutto discesa”, si legge di Lucia, il personaggio femminile del racconti “Rumori”, che si avvia così: “Incominciò a sentirli dopo il racconto di un sogno. Rumori d’un volo di insetti, di foglie sugli alberi e del vento tra l’erba, che si ripetevano per spiarlo, additare la contraddizione  di quel che sentiva”.
  Fra le pagine di  “Uomini a perdere” sembra proprio che il  lettore si muova fra fruscii e guizzi improvvisi, come tende che il vento alza all’improvviso a svelare qualcosa. Ci si attende che sempre stia per succedere un fatto grosso, che infatti succede, ma secondo canoni di importanza inusuali.
   Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, “Uomini a perdere”, un professore vedovo quasi alle soglie della pensione vive stretto alle sue abitudini, alle sue raccolte di rocce, al suo guardare svagato:
   “Nella luce tardiva d’un pomeriggio di primavera, mentre da una chiesa vicina risuonavano le campane del vespro domenicale, affacciato alla finestra Giuseppe guardava i bambini giocare nel parco della villa Bottini, al di là del fossato che costeggiava le vecchie mura medievali”. Mentre, come spesso fa, è lì che guarda, una domenica riceve la telefonata di suo fratello, che gli annuncia una visita imminente insieme a sua moglie e a due ospiti rumeni.
   Giuseppe si prepara. Rifà i letti, sistema gli asciugamani, e pensa a quel suo fratello così diverso da lui, a come procederà la giornata. E poi  finalmente la giornata arriva: qualcuno si perde, qualcuno si ritrova, qualcun altro fa una rivelazione, mentre il narratore ci dipana i pensieri e le emozioni di Giuseppe, che guarda ammirato e un po’ triste sua cognata Claudia. La può solo guardare, e poi girare per un istante fra le sue dita un fermaglio che la donna ha lasciato sul comò. Come se un fermaglio abbandonato fosse l’unica cosa che in certe occasioni della sua vita una donna può dare.
   Ne “La congettura di Goldbach” è narrata l’amicizia fra due vicini di casa, un incendio spento in tempo, un problema di matematica che non  viene risolto; il “Ritratto” racconta di un sorriso che il protagonista non sa riconoscere in se stesso, fino a che non incontra una ragazza e non assiste ad un drammatico incidente, mentre la “Liberazione del Cardillo” è tutto un gioco di sguardi, di lunghe attese, di un gatto e di un cardellino. Ma detto così certo è troppo, troppo poco, poiché al contrario non c’è in realtà niente di minimo (o di minimalista) nella raccolta di racconti “Uomini a perdere”.
   C’è il molto che ci risiede negli occhi,  nel vivere il nostro usuale sgranare dei giorni, negli incontri, nei sogni e nei desideri.

Paola Rocchi