Una nuova stagione per la vecchia ondata

   Un Racconto di Primavera di Eric Rohmer

   Dopo i due cicli di Racconti morali e di Commedie e Proverbi, Eric Rohmer dedica una nuova serie di film alle stagioni, aprendola con un Racconto di Primavera. La primavera la s’intravede appena (come del resto s’intravedeva appena quella tarda di Ozu, della quale si percepisce una certa eco), ma per tutto il tempo del film si è in attesa che qualcosa sbocci. Ciò che dovrebbe sbocciare è, tanto per cambiare, una storia d’amore: una professoressa di filosofia (Anne Teyssèdre) ed una studentessa (Florence Darrel) s’incontrano a una festa e fanno amicizia. La ragazza, dopo aver ospitato la nuova amica per alcuni giorni a casa sua, dove vive col padre (Hugues Quester, particolarmente bravo), cerca di favorire una relazione tra loro, anche perché l’attuale amante di lui (Elise Bennet) non le è affatto simpatica.
  

   Rispetto ad altre storie rohmeriane questa è se possibile ancora più scarna e compassata, forse altrettanto inquieta, ma meno ricca di spunti drammatici o ironici. Come altre storie anche questa può sembrare di averla in parte già vista, quasi fosse scaturita direttamente dalle precedenti come l’ultima scatola d’una serie cinese. Anche qui si scava tra le righe d’una vicenda semplice, esercitandosi ad affinare lo sguardo, anche qui la recitazione è preziosa e fornisce al racconto la sua tonalità definitiva. Il linguaggio è come al solito tanto classico e sobrio da far pensare ad una provocazione silenziosa, quasi ad un’opera di mimetizzata avanguardia. La vicenda scorre senza assumere troppa importanza e l’attenzione si ferma spontaneamente su i personaggi ed i loro rapporti, sullo spazio elastico che si frappone tra loro. Lo spettatore è tenuto legato con un filo di lana che potrebbe spezzarsi in qualsiasi momento per un movimento troppo brusco sulla poltrona: sta a lui – in altre parole – dimostrarsi un valido interlocutore dei personaggi e prendere parte attiva alle lievi peripezie del loro apprendistato. Rohmer gli propone soltanto di rivedere e rivivere quanto è abituato a vivere distrattamente, gli mostra le sue omissioni attuali e gli intoppi del suo discorso futuro, probabilmente convinto – come un altro maestro proveniente dalla Nouvelle Vague ebbe occasione di dire – “che qualsiasi film è meno fantastico della giornata d’una persona qualsiasi”.
   D’altra parte, secondo Godard è anche vero che qualsiasi persona trova di solito i film che ha visto molto più “formidabili” della sua vita. Sotto questo profilo, tuttavia, Rohmer sembra essere più ottimista di Godard, o forse più realista. Persuaso che ormai i film abbiano una clientela scelta, che sa in anticipo quale genere le viene proposto, egli pare aver appreso l’arte di costruire a poco a poco il proprio pubblico, di educarlo a partecipare alla propria ricerca scommettendo sul suo bisogno di fermarsi a osservare la propria esperienza, d’indagarne le difficoltà e individuarne le alternative. Non si tratta tanto d’una proposta intimista o minimalista, quanto del volersi perentoriamente sottrarre a quella cultura del “formidabile” che appare ormai interamente prevedibile e predigerita, e forse apprezzata dal largo pubblico più per la sua capacità di autoriprodursi e pubblicizzarsi che non per una qualche affinità elettiva.
   Nel panorama degli sviluppi della Nouvelle Vague il cinema di Rohmer costituisce, sotto un certo riguardo, un estremo opposto a quello di Godard, che mentre quest’ultimo cerca di cogliere attraverso il montaggio tutti i vuoti e gli squarci della realtà, tutte quelle piccole che nelle vene della vita si susseguono molto rapidamente o molto lentamente, Rohmer tenta di ricomporre il quadro disarticolato dell’esperienza e di fornirne una versione narrativa intelligibile e perspicua, così da farci scivolare impercettibilmente in qualche ansa essiccata della nostra storia.
   Nonostante questa radicale differenza – ad un tempo stilistica e filosofica – entrambi condividono una concezione del cinema che, come l’ultimo Velazquez e tanto per citare ancora Godard, “non è le cose, ma ciò che sta tra le cose, quel che c’è tra qualcuno ed un altro, tra te e me”, un modo diverso rispetto alla pittura o al romanzo di mettere in rapporto una cosa con un’altra, ma pur sempre un modo per uscire un po’ da noi stessi, che ci aiuta a rientrare un po’ in noi.