Su un tappeto magico, in compagnia d'un maialino danzante...

Il viaggio artistico di Antonio Possenti nell’antologia della Critica dal 1967 al 2013

 

Bernard Berenson sosteneva che quanto più l’opera d’arte diviene familiare, tanto più è difficile vederla. In un certo senso è vero però anche il contrario, perché un quadro ci diviene familiare solo se riesce a coinvolgerci nel suo specifico sguardo: solo in quel momento, mentre impariamo a guardare in quanto presi nel suo stesso vedere, esso può permeare la nostra visione fino al punto di non consentirci più di distinguerla da quella che esso ci propone; e solo in quel momento, mentre riusciamo davvero a vederlo, potremmo a ragion veduta incominciare a considerarlo “familiare”.

 

In linea generale tutte le opere - siano esse letterarie, musicali o pittoriche - che rimangono impresse nella nostra memoria percettiva e spirituale hanno questa stessa caratteristica: si rivelano sempre nuove ad ogni successiva lettura, ad ogni nuovo ascolto o visione, arricchendosi di ulteriori dettagli mentre rimescolano nell’animo altre significazioni e rivelano imprevedibili poteri evocativi.

Se questa fosse la perentoria sintesi di una semeoitica estetica la pittura potrebbe fornirle, forse più di altre forme espressive, solide conferme. Basti pensare ad un’esperienza che qualsiasi amante dell’arte non può non aver fatto: a fronte di tante opere incapaci di produrre significative risonanze, ve ne sono altre che più le si guarda e più sembra d’imparare non solo a vederle, ma addirittura a vedere mediante loro, come se il nostro sguardo si facesse in quello stesso tempo della visione più ampio e profondo.

Affinché un’opera d’arte riesca a produrre simili risonanze in maniera duratura, ovvero su un pubblico storicamente e culturalmente vasto e vario, è però necessario che abbia al suo interno sedimentate e organicamente rielaborate tracce della storia da cui ha attinto: questa prerogativa è infatti propria di tutti gli artisti che hanno saputo individuare i propri maestri e assimilare la loro lezione, metabolizzandola attraverso un silenzioso dialogo con il loro orizzonte espressivo.

In alcuni fortunati “liberi scolari”, o con un'espressione ancor più desueta, ma che forse rende meglio l'idea, in più o meno diretti "discepoli assimilitori”, si è poi formato uno stile proprio lungo un qualche segreto filo di coerenza estetica, una sorta di metodo capace di lasciar risuonare la lezione dei maestri arricchendola di nuovi riflessi e sviluppi originali.

Sono questi gli artisti che non smettono d’insegnarci a vedere, sottoponendoci a quell’eterno apprendistato cui ogni appassionato di pittura non vorrebbe mai sottrarsi. In alcuni casi però non si limitano a questo, ma si può avere, guardando le loro opere, persino l’impressione d’imparare a immaginare, o a sognare, quasi ci fosse in certi quadri, da qualche parte misteriosamente celato, un apposito manuale d’istruzioni per apprendere questa difficile arte solitamente riservata agli incantesimi della notte.

Antonio Possenti può essere con pieno diritto annoverato tra questi docenti dell’immaginazione e i suoi quadri possono essere intesi come piccoli manuali per imparare a sognare, dato che nessuno può presumere di saperlo fare al meglio delle sue possibilità.

Nella introduzione di Maria Cristina Cabani all’antologia della Critica dal 1967 al 2013, la stessa curatrice del volume ricorda come l’artista lucchese abbia avuto tanti e diversi maestri: una nutrita e qualificata schiera di commentatori della sua opera vi ha infatti ravvisato tracce profonde di Bosh e di Brueghel il vecchio, e poi di Gauguin, Monet, Chagall, Matisse, Klee e di tanti altri che non è possibile qui enumerare.

Leggendo questo libro massiccio, ricco d’illustrazioni di molti dei quadri più belli di Possenti, si può avvertire con un qualche rammarico l’assenza di commenti critici anteriori al 1967. Non sapendo se questa assenza possa dipendere dalla loro effettiva inesistenza, bisogna però almeno ricordare che ad essa non corrisponderebbe in ogni caso l’inesistenza di una produzione pittorica di assoluto rilievo. Anzi, già prima di allora, ovvero prima della “nascita” del Possenti quale oggi tutti lo conosciamo, quel dialogo fitto con i maestri aveva già incominciato a dare i suoi frutti, fin da subito assolutamente originali e mai imitativi, e sarà proprio in virtù della loro mediazione che potrà germogliare in seguito la sintesi felice di quel modo di dipingere che si è fino ad oggi consolidato.

Prima c’era stato, ad esempio, un breve periodo picassiano, con risultati per molti versi impressionanti per la capacità di rendere, in maniera non meno intensa di quanto accadeva nei periodi rosa e blu del pittore catalano, certe sospensioni estatiche dell’essere di fronte alla vita, certe espressioni catturate da un indefinito stupore; ma c’erano anche state opere echeggianti gli impressionisti, Chagall, Matisse, o altri grandi artisti a lungo frequentati e assimilati con dedizione.

L’unico modo per metabolizzare insieme tante diverse lezioni era forse quello di trovare una qualche forma di narrazione che ne restituisse alla visione gli echi rispettivi entro un unico flusso d’immagini; ma per questo serviva l’invenzione di un codice narrativo, un metodo per raccogliere in scene unitarie le risonanze visive di tante esperienze pittoriche profondamente recepite.

Antonio Possenti trova a un certo punto della sua vita la chiave per operare questa sintesi in una festa mobile di simboli, allegorie e miniature danzanti, in cui tutta l’esperienza pittorica assimilata sembra zampillare come da una sorgente ispiratrice assolutamente nuova.

Anche dopo la nascita del suo stile più maturo, i suoi quadri sembrano raccogliere e nutrire echi di tante influenze significative, pittoriche o letterarie, talora filosofiche o musicali, ma i frammenti delle narrazioni da cui ora paiono composti costituiscono la trina di un nuovo sogno, gremito ogni volta d’iniziazioni plurime ed esistenze uniche e solitarie, qualche volta intrepide e sonnambule, altre volte prelevate dal quotidiano quali schegge di vite rintanate, esitanti e sul punto d’essere dismesse, ma in extremis recuperate e salvate.

Il continuo processo di reinvenzione dei molti personaggi che compaiono nei suoi quadri pare riuscire a riportarli in vita grazie al tocco indolente e leggero di una bacchetta magica: essi sembrano con sorpresa appena riaffiorati in superficie dalla zona d’ombra in cui erano sprofondati, o tratti in salvo da quello stesso binario morto dove si erano momentaneamente incagliati e dal quale pare non avessero nemmeno tanta voglia di essere rimossi così presto.

Lo stesso Possenti descrive in alcuni versi, riportati da Piero Pacini all'interno del volume, un motivo ispiratore della poetica da cui quest’indolente tocco di bacchetta potrebbe aver tratto i suoi poteri magici: <<Sono il viaggiatore / più pigro, / inconcludente, / intransigente, / falsario. / Viaggiatore famoso / del binario morto, / del porto sommerso. / Appena partito / rimpiango / la maledetta ora esatta / della valigia disfatta / sul letto, / il prezzo pagato / per il biglietto […]>> (p. 271).

Questo viaggiatore pigro e inconcludente ci svela i suoi viaggi lungo i solchi di una memoria involontaria che spontaneamente annoda le immagini in schizzi di simboli variopinti e riottosi, quasi fossero dotati di volontà autonoma e di una propria inclinazione alla metamorfosi. Forse anche per questo le opere dell’artista lucchese possono assumere il curioso aspetto di “raccontini stregati”, come ebbe a definirli Dino Buzzati sul Corriere della Sera del 6 Dicembre 1970: “stregati” perché in grado di farci rivivere come in un incantesimo fanciullesco le trasfigurazioni repentine di individui e di cose, di animali non meno reali che fantastici, trasformandoli tutti in accordi di una composizione allegorica.

La realtà del mondo, quello che se ne sta impunemente e ostinatamente là fuori, non risulta per tutto questo trascurata. Come scriveva Arrigo Benedetti, “Possenti, avendo ormai la sicurezza dei suoi modi espressivi, accoglie la realtà contemporanea, non la classifica, ne ricava emozioni che poi rende sulla tela. Ormai, i fatti che l’hanno commosso, gli oggetti che l’hanno impressionato o incuriosito, quasi si direbbero diventati elementi lirici, simboli” (p. 176).

Enrico Crispolti osserva poi come, all’interno di questo ininterrotto scenario lirico e simbolico prenda forma “un mondo gnomiforme, una dimensione di fantasia avvolgente e risucchiante, non perché visionaria ma perché animisticamente prensile, e fascinosamente seducente nella sua subito presumibile sincerità di dettato evocativo” (p. 243).

Quest’animismo prensile affiora nei “boschi onirici” di Possenti, che sono ricchi – come scrive Umberto Cecchi – “di foglie tremanti, di sacri mostri, di pellegrini sperduti, di uccelli assonnati”. In essi possiamo trovare “luna e rinoceronti, frutti tropicali e viandanti zoppi, ispidi viaggiatori e tartarughe e conchiglie e falci di luna, corvi e balene, barche in lotta con le maree e strani naufraghi della vita, approdati su spiagge sulle quali è steso ad asciugare un cielo trapunto di stelle” (p. 315).

Insieme ai pesci e agli uccelli, proprio il mare costituisce un tema ricorrente. In piazza dell’Anfiteatro, dove da oltre quarant’anni ha il suo studio, Possenti pare aver dedicato gran parte del proprio tempo a raccogliere, come annota con una bella immagine Massimo Bertozzi, “le confidenze di naviganti stralunati” (p. 340). A somiglianza di un monaco buddista che abbia saputo trasfigurare il caos che nutre la sua anima in un ordine dinamico e privo di resistenze interne, Possenti trasforma i disegni del fato che incombe sui suoi naviganti in racconti colorati, rendendo il loro karma più leggero.

Se la sua pittura può recare con sé brevi scie d’inquietudine, nel complesso promuove invece esiti decisamente confortanti. Come scrive John Russel Taylor, “se ci mettiamo nelle mani di Possenti non possiamo correre alcun pericolo. Con un tappeto magico che si libra nel cielo ed un maialino danzante graziosamente vestito che ci assiste, possiamo andare ovunque, fare qualsiasi cosa” (p. 357).

Dentro questo scintillio d’associazioni, dentro questa fluida inerzia di bestioline danzanti, la memoria pare coltivare il proprio terreno più fertile. Il subbuglio dell’anima, la confusione in cui si può rinvenire – che come per il protagonista di 8 e ½ nella sequenza finale del film rivela il Sé del pittore/regista nella forma più trasparente e perspicua - evocano impressioni e immagini che dialogano in una ridda muta di voci e colori.

Anche dopo che il marinaio nero ci avrà portati tutti nello stanzino buio dove venivamo  reclusi nell’infanzia, anche quando ci avrà imbarcati nella stiva maleodorante del suo vascello, si potranno ancora scorgere da fessure inattese squarci di cielo e di mare, antichi volti di pescatori impegnati quietamente a conversare con la morte, a indugiare con lei su una spiaggia. Ci sarà ancora il vento tra le bandiere e qualche grande pesce ammutolito su un tavolino lancerà ancora il suo sguardo assoluto verso un punto indefinito; e anche quando il mantello della notte ricoprirà quel che resta del giorno rimarranno le stelle e la luna a sorriderci, e forse un po’ a deriderci, dalle nostre finestre spalancate.

Da quelle finestre irromperanno ancora una volta, nelle nostre stanze pullulanti di oggetti e di simboli, lievi folate d’assenze, di tormenti e d’impalpabili allegrie per osservarci da vicino con i loro occhi sgranati, quasi alludendo al fatto che tutta la luce potrebbe giungere da un medesimo punto cieco di dolore. Certo, tanto la melanconia che la leggerezza sembrano scaturire, nei quadri di Possenti, dalla stessa fonte arcana: c’è, come suggerisce Alfonso Gatto, l’ilarità estrema d’una tristezza (cfr., p. 158) a ravvivare le figure e i volti, i mostri inermi e gli uccelli taciturni.  

Alla fine, ciò che rimane al termine di questo viaggio, lungo o breve è difficile stabilire, è solo il nostro sguardo che si volge indietro sui nostri vecchi giochi mezzi rotti da bambini; è quello stesso sguardo, estatico e interrogativo, che ci fissa ancora da quei mostri e da quegli animali ammutoliti che adombravano le nostre giornate immaginarie. Forse ciò che rimane sono i pesci rimasti a bocca aperta su una spiaggia verso il mare. Forse questa ridda di simboli costituisce l’unica traccia che ci è consentito lasciare dietro i nostri passi. Il fatto che si ostinino a fissarci da un altrove indefinito con il loro ineffabile sorriso e le loro movenze danzanti ce lo testimonia: l’intero viaggio, nella sua iridescente innocenza, non è e non è mai stato da temere o rifuggire.

 

AA. VV:  Antonio Possenti. Un lungo viaggio. Antologia della Critica 1967-2013. A cura di Maria Cristina Cabani; Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e Arti - Maria Pacini Fazzi editore; Lucca, 2013, pp. 485.